Ex Cococo, ecco le vere cifre: sono quasi 2 milioni

Ricerca di Ires e Nidil Cgil smentisce i dati del governo.
L’Ocse sull’occupazione: nessuna crescita fino al 2007

Fra stime ed ipotesi, finalmente qualcuno – l’Ires e il Nidil Cgil – ha quantificato i lavoratori parasubordinati in Italia: 1.785.856.
Almeno, tanti sono i lavoratori attivi che hanno versato i contributi al fondo parasubordinati dell’Inps. Dal totale, Ires e Nidil hanno sottratto gli amministratori, i sindaci e i revisori arrivando così alla cifra finale di 1.014.366 collaboratori non Asr e senza altri redditi (1.177.415 se si includono i pensionati/collaboratori). Un numero che va a smontare le statistiche pubblicate finora che hanno permesso al governo di sparare la rassicurante cifra di 400mila precari in Italia. Infatti, accanto alla “quantità”, i ricercatori hanno calcolato il reddito dei precari, sempre in base ai contributi Inps: 3.266 milioni di euro annui, per una media di 13.063 euro lordi a collaboratore. In linea cioè con le ricerche Ires ed Eurispes e ben al di sotto di quanto sarebbe se i precari fossero realmente 400mila: in quel caso il reddito annuale sarebbe addirittura di 58.321 euro a testa, trasformando così la precarietà da condizione da combattere a miraggio. Come se non bastasse le previsioni non sono certo rosee. Ieri l’Ocse ha pubblicato i suoi studi sull’economia italiana del 2005, anno in cui, dopo 24 mesi di crescita occupazionale (seppur “drogata” dalle nuove forme di lavoro), l’occupazione rimarrà ferma, lasciando nella situazione attuale circa 2 milioni di disoccupati (8, 4% il tasso) e così sarà anche nel 2006. Terzo e ultimo capitolo di ieri, le rilevazioni Istat sulla forza lavoro delle aziende private, non agricole, con almeno 500 dipendenti: ad aprile sono andati in fumo 7mila posti di lavoro. Nell’industria, rispetto ad un anno fa ci sono 13mila occupati in meno, pari all’1, 7%.

Più di un milione e 700mila precari quindi, una «platea eterogenea» che in comune ha «l’assenza di protezione sociale, l’incertezza sul futuro previdenziale, l’assenza di regole contrattuali e di tutela, la discriminazione nei compensi». Una platea che nell’ultimo anno ha visto ingrossarsi le sue fila, dato che – sostengono i ricercatori – il 70% dei nuovi contratti hanno avuto forme discontinue e precarie. Maggiormente colpiti gli “adulti/giovani”, ossia i lavoratori fra i 30 e i 44 anni, il 44, 7% del totale. Particolarmente affollati di precari sono i settori specializzati, come l’istruzione privata (56%), la ricerca (15%) e le piccole imprese, quelle con meno di 15 dipendenti (63%). Altro elemento importante è quello della continuità: nata anche per diventare una sorta di economico ripiego per i datori di lavoro, la flessibilità è diventata al contrario un elemento strutturale dei rapporti di lavoro. La maggior parte degli intervistati va avanti a contratti variabili dai 7 ai 12 mesi, ma addirittura uno su cinque è in questa condizione nello stesso posto di lavoro da oltre 4 anni. Peggio va dopo l’applicazione della legge 30: solo il 4, 9% dei collaboratori ha avuto un’assunzione, mentre addirittura l’88% è rimasto collaboratore, nella stragrande maggioranza dei casi a progetto. Altri sono scivolati nella piaga del lavoro nero. Un fenomeno, questo ultimo, che al Sud continua a raccogliere involontari adepti, dato che la disoccupazione resta un problema – scrive l’Ocse che «le disparità regionali in Italia nel mercato del lavoro restano ostinatamente alte» con il pendolo che gira a favore del Settentrione – mentre il ricorso al lavoro atipico è percentualmente molto più basso che nelle altre Regioni. Quindi, rimane solo disoccupazione e sommerso. La disoccupazione d’altro canto danneggia soprattutto le donne, di cui solo il 45, 2% ha un posto di lavoro. Italia ultima in Europa anche in questo, ben al di sotto della media continentale del 57, 1%.

Insomma, l’occupazione è il grande tema che dovranno affrontare i prossimi legislatori. Ieri il Nidil Cgil, sindacato che tutela le nuove identità di lavoro, ha accompagnato le cifre ad una serie di proposte illustrate ai politici presenti, ossia Alfonso Gianni del Prc, Luciano Guerzoni dei Ds e Gianpaolo Silvestri dei Verdi e ai segretari nazionali della Cgil, Morena Piccinini e Fulvio Fammoni. Nella sua relazione il segretario generale Emilio Diafora punta sul «lavoro a tempo indeterminato come tipologia ordinaria dei contratti», su una nuova legislazione «a sostegno della contrattazione collettiva» accompagnata da «una profonda rivisitazione delle politiche di welfare». Il tutto dopo aver abrogato la legge 30 e «i presupposti che l’hanno favorita» (leggi pacchetto Treu). Questo la Cgil chiede all’Unione, che si è dimostrata, seppur con qualche distinguo, sostanzialmente ben disposta: «Non dobbiamo più parlare di flessibilità buona – ha specificato Gianni – e non bisogna separare questo tema dalla previdenza e da quello che stanno legiferando in Europa».