Evoluti in nome di verità divine

Nei testi che precedono il suo pontificato, Joseph Ratzinger si è sempre proposto come uno strenuo difensore dei dogmi della chiesa sull’origine della specie umana. Ingrossando così le file di un sofisticato creazionismo, che non nega i risultati della biologia o della teoria dell’evoluzione, ma li colloca ai margini di una visione teologica della realtà

Nella comunità scientifica internazionale circola un aneddoto. Due biologi si incontrano e discutono sul significato dell’evoluzione e sugli sviluppi dell’evoluzionismo dalla teoria classica di Darwin ad oggi. Alla fine uno dei due, probabilmente ansioso di tornare al lavoro, chiude bruscamente la discussione dicendo: «Io so che cosa è l’evoluzione, ma se me lo chiedi, non lo so più». In termini di battuta o, se vogliamo, di «battutaccia», queste parole la dicono lunga sull’atteggiamento che un autentico biologo ha su un contesto cruciale di ricerche, osservazioni, quadri teorici, problemi qual è l’insieme di fenomeni raccolti sotto il termine di «evoluzione». Una sorta di fair play, cui è tenuto dalla comunità scientifica internazionale, gli impone cautela e attenzione e, per solito, gli impedisce di trasformare verità «locali» o regionali in assunti di base tali da prestarsi a essere contenuti di una nuova visione del mondo se, non addirittura, di una nuova religione in cui Dio o gli dei assumano una configurazione e un ruolo differenti da quelli loro assegnati dal monoteismo o dal politeismo. Coerentemente si rifiuta di farsi definire, in ordine alle sue prudenti sistemazioni teoriche, «spiritualista» o «materialista», a meno che per «materialismo» non si debba intendere la mera filosofia dell’indagine scientifica che, nelle scienze che hanno per oggetto i sistemi complessi, ossia gli esseri viventi, impone, in prima istanza, di attenersi alla peculiare indole dei fatti biologici che, per l’altissima improbabilità della loro occorrenza, permettono di darne piuttosto descrizione e illustrazione che non interpretazione. Sotto questo aspetto sostenere, come sosteneva Stephen Jay Gould, che la biologia è una scienza storica, è probabilmente il modo corretto di vedere le cose, se non altro perché tutto si può negare tranne che un fatto, accertabile con la sufficiente approssimazione della metodica sperimentale, sia un evento che forse non poteva non darsi, ma che comunque si è dato, tale per cui non resta che prenderne atto. Tra i fatti, per quanto concerne l’uomo, rientra la sua origine che Charles Darwin in The Descent of Man («L’origine dell’uomo», 1871) riconduceva alle grandi scimmie.

Animale non specializzato

Messo in una forma un po’ più precisa, il popolare enunciato «l’uomo discende dalla scimmia» rinvia all’assemblaggio di una serie di fatti ciascuno dei quali incontrovertibile: l’uomo rientra tra i primati con cui condivide la complessiva struttura embriologica e dai quali si distingue per la statura eretta e per non essere definibile alla stregua di un animale specializzato qual è il primate non umano contrassegnato da unghioni, pelame folto, arti prensili. Perché mai, all’interno di una comune ascendenza, si sia sviluppata una linea evolutiva che ha condotto alla specie Homo sapiens (o, più precisamente, Homo sapiens sapiens) non lo sappiamo con certezza, dal momento che possiamo far discorso intorno al come e non al perché di questo sviluppo. Per di più si comincia sempre più spesso a parlare non di un’unica specie umana, ma di un insieme di specie umane spesso convissute per migliaia di anni, un vero e proprio «cespuglio di specie» (come afferma, ad esempio, Telmo Pievani nel bel libro Homo sapiens e altre catastrofi, Meltemi editore) che lasciano intravedere l’intrecciarsi di più linee evolutive. Qualcuno – a suo tempo sembrò inclinare a questa tesi Jacques Monod – sostiene che proprio la singolare imprevedibilità della genesi della specie umana aprirebbe la porta all’idea di un «divino artefice» (il mitico demiurgo del Timeo platonico e del Galeno dell’Utilità delle parti) che, dopo aver creato il mondo e gli animali e, tra questi i primati, avrebbe operato a carico delle grandi scimmie una sorta di selezione intesa a dare origine all’uomo.

In questa prospettiva creazione e selezione non costituirebbero due posizioni in contraddizione tra loro, giacché la seconda sarebbe stata la via scelta da Dio per creare «quell’essere perfetto che è l’uomo». Certo una soluzione un po’ più sofisticata del creazionismo puro, che sta al mero dettato biblico, seguita oggi dai neocons e theocons conservatori ma che contiene al suo interno un’improprietà scientifica e una meschinità etica: dal punto di vista biologico non ha senso parlare di specie più perfette delle altre, ché, per contro, ogni specie è a suo modo perfetta giacché, nella fase in cui, di volta in volta, viene a trovarsi, un determinato gruppo filetico è dotato, nel suo apparato, di tutte le «istruzioni per l’uso» necessarie e sufficienti per la sopravvivenza; dal punto di vista etico, la tesi può far derivare il diritto dell’uomo a fare a carico degli animali tutto quello che vuole. Lo ha sempre fatto e lo ha fatto e continuerà a farlo per sopravvivere, ma ci pare un po’ vergognoso beatificare in tal modo una tragica necessità. D’altronde anche questo paradigma può ricevere un’interpretazione evoluzionistica: credersi il culmine della perfezione è stata per l’uomo l’arma più potente per esorcizzare lo spaventoso spavento che da sempre lo attanaglia. In questa ottica del resto si muovono diversi studiosi italiani e, tra questi, in particolare, un attento studioso dell’evoluzionismo qual è Gilberto Corbellini.

I mesi caldi del 2005

Non faremmo queste considerazioni, che forse apparirebbero uggiose e risapute agli addetti ai lavori, se a spingerci ad avanzarle non fosse un insieme di arroventate polemiche che hanno contrassegnato i mesi che stiamo lasciandoci alle spalle. A dar fuoco alle polveri è stato lo stesso Benedetto XVI che, nell’omelia pronunciata in piazza San Pietro il 24 aprile alla messa per l’inizio ufficiale del suo pontificato, non avesse affermato tra l’altro: «Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione». Intendiamoci, aveva tutto il diritto di affermarlo, un diritto che gli discende dalla fede professata e dal dovere del suo magistero, una sorta di obbligo professionale che gli impone di distribuire certezze e non già, come qualsiasi altro pensatore – e pensatore Ratzinger lo è certamente se non altro per il livello della sua competenza teologico- filosofica – di seminare dubbi. Il disegno, come sempre, è chiarissimo: a fronte dell’infelicità dilagante, del crescente numero di diseredati, fornire sicurezze per il presente – il presente abitato da un Dio che atterra e affanna, ma nel contempo suscita e consola – e speranze nel futuro al di là di anime dichiarate immortali, esorcizzando il terrore della morte. Tutti potenti mezzi di persuasione che, enfatizzati dal bagno di folla in cui pare immergersi volentieri come Giovanni Paolo II, garantiscono a un pontefice la messa a punto di un superiore sapere dei fini.

Le omelie di Monaco

Naturalmente, anche ammesso che li abbia, Benedetto XVI non può permettersi di esprimere dubbi personali. (Detto per inciso, qualche suo predecessore lo ha fatto. Paolo VI ringraziava Dio per averlo fatto vivere nel clima tormentato della modernità e per aver messo tanti dubbi nella sua coscienza. Persona di singolare complessità, non mancò un giorno di biasimare Dio. Celebrando, in una memorabile giornata del maggio del 1978, in San Giovanni in Laterano, la messa per i funerali di stato di Aldo Moro, ebbe tra l’altro a dire: «Tu, Signore, non hai voluto ascoltare la nostra preghiera»). Sin qui, comunque, parrebbe non esserci nulla di disdicevole. O forse sì. Lo è sotto il profilo della religione, giacché la fede non nasce soltanto dalle passioni di una folla altrimenti solitaria, ma anche e soprattutto da un percorso essenzialmente individuale del quale componente primaria è proprio il dubbio. Lo è però, soprattutto, sotto quello della politica culturale e della politica in genere, come hanno sottolineato tutti gli interventi apparsi sulla stampa italiana in estate e in autunno (tra questi segnaliamo un vivace articolo di Roberto Capocci, Teocon, la lunga marcia sul valico di Darwin, 25 agosto). Ma perché lo è? Perché, sul filo delle sue dichiarazioni, si è avviata, come era già accaduto nei confronti di Giovanni Paolo II, la beatificazione politica di Benedetto XVI e, per essa, una vera e propria beatificazione della politica legittimata così a fare scelte di natura confessionale in settori sensibili della vita pubblica, dall’aborto, alla procreazione medicalmente assistita, all’impiego delle cellule staminali embrionali. Ne verrà investita la società italiana nel suo complesso, di non credenti e di credenti, i quali ultimi, nel caso di opzioni fondamentali per la loro esistenza, non è affatto detto che si rifacciano, senza se e senza ma, al loro credo di cattolici. Si dirà che il papa non fa politica e che tutti, ivi compresi i politici, sono liberi di seguirne o non i precetti. Giusto, ma a prescindere dalla condizione di degrado delle nostre istituzioni, che va a tutto vantaggio del prestigio e dall’autorevolezza della Chiesa, ci chiediamo se l’attuale pontefice non sia per avventura responsabile di questo processo di beatificazione e, in qualche modo, lo promuova direttamente. Pensiamo francamente di sì. Per provarlo, abbiamo indossato, noi laici, le vesti ingombranti dell’inquisitore e, ipotizzando il reato di intrusione negli affari interni dello Stato, abbiamo operato un esame di taluni documenti. Qualcosa abbiamo trovato.

Il testo più antico è costituito da quattro omelie tenute nel 1981 a Monaco di Baviera, di cui Joseph Ratzinger era allora arcivescovo, già comparse in italiano nel 1986 (sotto il titolo di Creazione e peccato. Catechesi sull’origine del mondo e sulla caduta, Roma, Edizioni Paoline). Tra i diversi passaggi del testo il più significativo ci sembra il seguente: «È compito delle scienze naturali chiarire attraverso quali fattori l’albero della vita si differenzia e si sviluppa, mettendo nuovi rami. Non spetta alla fede. Però possiamo e dobbiamo avere il coraggio di dire: i grandi progetti della vita non sono un prodotto del caso e dell’errore; ne sono il prodotto di una selezione, cui si attribuiscono predicati divini, che in questa sede sono illogici, ascientifici, un mito moderno. I grandi progetti della vita rimandano a una ragione creatrice, ci indicano lo Spirito creatore e lo fanno oggi in maniera più chiara e splendente che mai».

Il primo periodo sarebbe condivisibile in pieno da qualsiasi scienziato: l’immagine dell’albero è una metafora ricorrente nel lessico di biologi e storici della biologia per segnalare la speciazione, cioè la formazione delle specie; l’associazione tra differenziazione e sviluppo, che Ratzinger riprende da Aristotele, è del tutto in linea con una disciplina chiave della teoria biologica, la «biologia dello sviluppo» che da un pezzo fornisce gli strumenti concettuali di base per la sistemazione dei risultati della ricerca. Nel secondo periodo questa apertura all’approccio evoluzionistico è bloccata dall’intervento dei «grandi progetti della vita», un finalismo del tutto estraneo alla teoria classica dell’evoluzione. Ma non è questo il punto. Singolare è piuttosto il modo in cui l’autore intende «caso» ed «errore». «Caso» non va considerato come sinonimo di «a casaccio», ma semmai come un termine, forse improprio, per segnalare l’altissima imprevedibilità degli eventi biologici. Ma veniamo ad «errore».

L’uomo ad immagine di Dio

Abbiamo letto le omelie nel testo italiano e non sappiamo perciò se «errore» traduca il tedesco Irrtum (errore) o Fehler (sbaglio). Se stiamo comunque al libro delle Edizioni Paoline, «errore» non ha nella biologia evoluzionistica il significato che pare conferirgli Ratzinger: per solito compare nell’espressione for trial and error (per prova ed errore) in cui «error» (errore) non segnala uno «sbaglio», ma indica i tentativi compiuti da un organismo e protratti in un tempo lunghissimi per individuare un carattere vantaggioso. Il procedere per tentativi configura una ricerca casuale (random search), un processo che avviene nel tempo, che non è mirato, e che talora può risolversi davvero in uno sbaglio: tale, a detta di qualsiasi anatomista, è la posizione dell’esofago umano, struttura inadeguata per l’ingestione e che, come chiunque sa per comune esperienza, ci obbliga a un’attenta cautela nella deglutizione. Ma, se le cose stanno così, come mai l’uomo, culmine della creazione, sarebbe dotato di un organo così imperfetto? Come mai, aggiungiamo, sarebbe sovente afflitto da aberrazioni cromosomiche quale quella responsabile del morbo di Down o mongolismo, da immunodeficienze congenite e da un’infinità di altre anomalie genetiche? Allora, dove è il progetto intelligente? Bene o male, potrebbe replicare l’autore, tuttavia le cose reggono in «questa bella d’erbe famiglia e di animai», talché questo sarebbe, come diceva Leibniz, «il migliore dei mondi possibili».

Già, ma Leibniz lo affermava sulla scorta di un’idea, assai vicina a quella dell’evoluzionismo, esposta nel suo Discours de metaphysique, in cui si dava molto spazio al concetto di tentativo. Se non riteniamo insensate le nostre obiezioni, dobbiamo tuttavia riconoscere che esse non tolgono per nulla efficacia ideologica all’argomentazione di Ratzinger. Una volta introdotto il concetto di progetto intelligente, è difficile scacciarlo via. Con il suo aiuto vengono liquidati la selezione e lo sforzo di farla rientrare tra le vie seguite dal creatore. Alla fine chi parla di caso, di errore, di selezione viene accusato di essere vittima di un mito antiscientifico. Come dire: «tu, evoluzionista, non sei soltanto un miscredente e un peccatore, ma un incompetente e uno sciocco che non sa leggere i dati emersi dal suo stesso studio dei fenomeni viventi». Non sappiamo se nel 1981 Ratzinger pensasse alla possibilità di un diventare un giorno il futuro papa. Comunque non crediamo di esagerare più che tanto se affermiamo che era già pronta una buona base per l’esercizio di un sostanziale terrorismo culturale contro la biologia evoluzionistica e, per essa, contro la libertà italiana di opinione e ricerca.

Il secondo testo, Imago Dei, è costituito da un esteso documento della Commissione Teologica Internazionale, dal titolo, nella sua diffusione in italiano, La persona umana creata ad immagine di Dio. Esito di un lungo e complesso lavoro collettivo, fu approvato e sottoscritto il 23 luglio 2004 da Ratzinger, che la presiedeva nella sua qualità di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Nonostante non si possa ovviamente considerare opera sua, resta il fatto che ne porta la responsabilità per averlo ratificato e che molte tesi appaiono tali da poter essere state, se non direttamente ispirate, certo ampiamente condivise. Per la complessità dei temi affrontati e la ricchezza degli argomenti teologici e filosofici (questi ultimi, tuttavia, affrontati con qualche frettolosità), il testo merita di essere studiato con molta attenzione.

Accenniamo qui in particolare al paragrafo 19 del Secondo Capitolo, in cui leggiamo: «La concezione di un universo che progredisce grazie alla scienza moderna si è sostituita all’idea classica di un cosmo fatto a immagine divina, scardinando così un elemento importante della struttura concettuale a sostegno della teologia dell’imago Dei».

(1 – continua)