Euro MayDay e «non lavoro»

A Milano va in scena tutta un’altra rappresentazione. Qui il tema del Primo Maggio viene ribaltato e diventa la festa del «non lavoro».
La scadenza italiana, ormai al sesto anno, si presenta come articolazione di una mobilitazione europea, ma con contenuti alquanto diversi da quelli che saranno fatti vivere nelle altre piazze continentali. L’appello di convocazione della manifestazione milanese diffuso su Indymedia parla infatti di «lotta contro il workfare e ogni soluzione inegualitaria e coercitiva alla crisi del welfare fordista»; perché «vuole gettare le premesse per un nuovo welfare, come precondizione per una società orizzontale e democratica, dove il lavoro flessibile, immateriale, nei servizi e nella cultura non sia più sottoposto al ricatto della precarietà, all’impossibilità di esprimersi e di vivere». In positivo, si rivendicano «diritti sindacali, maternità pagata, continuità di reddito x tutte/i». Alex Foti, ideatore della prima Mayday e oggi candidato per i Verdi al comune di Milano, articola un po’ di più il ragionamento: «Siamo arrivati al punto decisivo per verificare se la sinistra eretica, radicale, sociale, libertaria, sindacale ha la volontà sufficiente a unire le forze per cancellare la legge Maroni-Biagi e imprimere una nuova direzione alle relazioni sociali nel paese che sia finalmente nell’interesse della generazione precaria».
La «legge 30» e la battaglia per la sua cancellazione è almeno un obiettivo concreto – e politico. E su questo la Cub, organizzazione storica del sindacalismo di base, tra i promotori della Mayday fin dalla prima manifestazione, converge convintamente. «Da alcuni anni – dice Pierpaolo Leonardi, del coordinamento nazionale – il primo maggio si caratterizza per noi sul tema della precarietà. E’ anche l’avvio di una campagna importante, che non farà sconti al governo su questo problema; perché diciamo mo alla legge Biagi, ma anche al ‘pacchetto Treu’», approvato dal precedente governo Prodi. Perché, ricorda, «bisogna ridare stabilità e certezze al lavoro, restituirgli valore e dignità». Un discorso che mal si coniuga con la rivendicazione del «reddito garantito», da cui Leonardi prende le distanze: «Pezzi vari che collaborano all’organizzazione del MayDay sono più orientati verso questa impostazione. Per un’organizzazione sindacale come la nostra, però, il problema della precarietà si risolve con la stabilizzazione dei posti di lavoro e un salario dignitoso; magari con forme di sostegno al reddito quando il lavoro viene a mancare».
L’altro sindacato di base storico, i Cobas, non partecipa più alla manifestazione di Milano. «La MayDay – spiega Piero Bernocchi – poteva essere un’idea importante se poi si fosse sviluppata in lotte effettive per la difesa di tutti quelli che svolgono lavoro precario. Ma da tempo si è ridotta ad un’autorappresentazione di un soggetto abbastanza politicizzato che rivendica il ‘reddito garantito’ in contrapposizione ai lavoratori in carne e ossa, precari e non. Ma del ‘reddito garantito’ come mancia parlano anche tante amministrazioni locali che campano del lavoro dei precari; se ne assumessero almeno un po’ sarebbe un discorso più serio».
E fa due esempi molto chiari. «La lotta dei precari di Atesia è paradigmatica. Quando quelli del Collettivo sono riusciti a mobilitare tutti i lavoratori sull’obiettivo della stabilizzazione del posto di lavoro, per un salario adeguato, sono stati lasciati soli». L’altro è la mobilitazione francese contro il Cpe, incentrata non a caso sul rigetto di una legge e sulla mobilitazione di tutti: lavoratori «stabili», precari e studenti che sanno benissimo di dover diventare presto lavoratori. E, come dire, ragionano già come tali.
La festa del «non lavoro» di Milano si muove su un altro piano. Ed è un bene che le differenze di visione politica esistenti nella parte più radicale della «sinistra radicale» comincino a diventare esplicite. Ne guadagnerà la chiarezza e forse anche la capacità di «mordere» sulla realtà che tutti rifiutiamo: la precarietà del lavoro che genera salario povero e incerto, e quindi vite schiacciate sotto il peso del bisogno.