Euro e dollaro. Segnali di conflitto.

Euro e dollaro
Nel 1998, alla vigilia dell’introduzione dell’euro, gli esperti prevedevano per la nuova valuta il destino di valuta forte: ciò perché l’euro raccoglieva un mercato finanziario anche più vasto di quello americano, perché comprendeva nel suo paniere valute tra le più forti e stabili, perché poggiava su una struttura produttiva comprendente alcune fra le industrie più avanzate del mondo. Come sappiamo, queste previsioni sono state ampiamente smentite da una svalutazione continuata dell’euro rispetto al dollaro, che ormai ha raggiunto e superato il 30%.
L’andamento declinante dell’euro come valuta comune di undici paesi europei ha portato con sé un capovolgimento della politica valutaria italiana.
In passato, quando l’Italia riusciva a condurre una politica valutaria autonoma, il tentativo era sempre quello di attuare una linea differenziata: tenere il cambio stabile, o addirittura in lieve rivalutazione, nei confronti del dollaro, allo scopo di evitare che una svalutazione facesse crescere i costi delle importazioni, a cominciare dalle fonti di energia (il petrolio greggio è appunto quotato in dollari), fino alle importazioni di prodotti tecnologici quali brevetti e attrezzature elettroniche. Si deve ricordare che nel 1975 le esportazioni verso l’area del dollaro (Stati Uniti e paesi Opec) superavano di poco il 17%, mentre le importazioni sfioravano il 30%; nel 1999 le esportazioni verso l’area Usa-Opec sono scese al 13% del totale, ma le importazioni sono scese assai di più e si aggirano intorno al 10% delle importazioni totali. Viceversa, nei confronti del marco tedesco, la lira veniva lasciata slittare allo scopo di agevolare le esportazioni verso l’area europea.
Il caso più esplicito di questa linea si ebbe fra il 1975 e il 1979. Abbandonato il sistema di Bretton Woods, non ancora instaurato il Sistema monetario europeo, vigeva un sistema di pagamenti internazionali basato su cambi flessibili. L’allora governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi perseguiva per l’appunto una strategia di cambi differenziati lungo le linee ora indicate. Nel giro di due anni, la lira si svalutò di oltre il 10% rispetto al marco tedesco. Una strategia simile venne seguita dalle autorità monetarie italiane nel quadriennio 1992-96, quando l’Italia abbandonò il Sistema monetario europeo e acquisì lo status di valuta fluttuante.
L’Unione monetaria europea ha reso definitivamente impossibili pilotaggi di questo genere. Dal primo gennaio 1999, l’euro (e con esso forzosamente la lira) si è svalutato di un buon 25% nei confronti del dollaro e del 30% nei confronti dello yen, mentre il cambio con le altre valute europee è ormai irrevocabilmente fisso.
È indubbio che la situazione strutturale del commercio estero italiano è cambiata nel corso degli ultimi anni. Nel 1991, l’Italia esportava il 63,1% dei propri prodotti verso i paesi dell’Unione europea e il 6,9% verso gli Stati Uniti; nel 1999, la quota di esportazioni verso l’Unione europea era scesa al 57,4% mentre la quota degli Stati Uniti era salita al 9,5%. Tuttavia le linee di fondo restano le stesse. Nei confronti dei mercati europei, le esportazioni italiane perdono competitività. Infatti, sebbene l’inflazione italiana possa dirsi ormai debellata, rimane sempre la tendenza dei prezzi italiani a crescere di più (o a cadere di meno) di quelli tedeschi, e questo maggior tasso di inflazione non può più essere compensato da una svalutazione della lira rispetto al marco. Al tempo stesso, la rivalutazione del dollaro rispetto all’euro rende più costose le importazioni e costituisce un pericolo costante di inflazione importata. Negli ultimi tempi, alla rivalutazione del dollaro si è aggiunto l’aumento del prezzo del petrolio greggio, che rappresenta un ulteriore fattore di inflazione proveniente dall’esterno.
Su questo terreno, non sarà inutile ricordare che l’aumento del prezzo del petrolio colpisce gli Stati Uniti assai di meno rispetto ai paesi europei. In primo luogo per una ragione di prezzo: gli Stati Uniti sono colpiti soltanto dall’aumento del prezzo del greggio, mentre i paesi dell’euro vedono crescere il prezzo del greggio in valuta locale non soltanto per l’aumento del prezzo in dollari ma anche per la svalutazione progressiva dell’euro.
Ma vi è anche una seconda ragione di privilegio degli Stati Uniti. Alla stipulazione del Trattato del Nafta ( North American Free Trade Agreement ) che, entrato in vigore nel 1994, ha creato una zona di libero scambio fra Stati Uniti, Canada e Messico, gli Stati Uniti riuscirono a includere una clausola (Art. 605 del trattato) a loro particolarmente favorevole. Questa prevede che il Canada, che attualmente esporta negli Stati Uniti più della metà della propria produzione, non può ridurre le proprie forniture se non nel caso in cui si riducano anche le risorse interne. Grazie a questa clausola, gli Stati Uniti pompano liberamente greggio dal Canada, mentre i paesi dell’euro non dispongono di risorse equivalenti.
Abbiamo detto che l’adesione all’Unione monetaria ha imposto all’Italia un capovolgimento nella politica valutaria. La stessa diagnosi non vale invece per la Germania. Negli anni dei cambi flessibili, e anche negli anni successivi del Sistema monetario europeo (al quale la Germania aderì nel 1978 e l’Italia l’anno successivo), la Germania ha perseguito una politica valutaria particolare. In apparenza la Germania ha più volte accettato di rivalutare il marco rispetto alle altre valute europee; però ognuna di questa rivalutazioni è stata inferiore rispetto a quello che avrebbe dovuto essere tenendo conto dell’andamento dei prezzi interni in Germania e negli altri paesi. Siccome la Germania ha sempre realizzato una stabilità dei prezzi interni, mentre negli altri paesi si registrava, in misura maggiore o minore, un processo di inflazione, il risultato è stato che il marco, pur rivalutandosi in termini monetari, si svalutava in termini reali. Le esportazioni tedesche univano così al vantaggio strutturale della superiorità tecnologica anche quello di prezzi relativi decrescenti. La Germania venne infatti accusata di praticare una politica ‘neomercantilistica’.
Oggi la Germania può continuare lungo le medesime linee. Il tasso di inflazione tedesco è inferiore a quello degli altri paesi, il che dovrebbe condurre a una rivalutazione del marco; ma poiché il marco si muove a cambi fissi con gli altri dieci paesi aderenti all’euro, di fatto il marco, in termini reali, continua a svalutarsi. La medesima diagnosi vale per i rapporti con il dollaro: il marco si svaluta in termini nominali in quanto incorporato nell’euro, ma in termini reali gode di una svalutazione aggiuntiva dovuta alla bassa inflazione tedesca.
Torniamo al caso italiano. La svalutazione dell’euro avvantaggia le esportazioni italiane sui mercati del dollaro; ma il più alto tasso di inflazione, accoppiato ai cambi europei ormai fissi, le danneggia nell’area del marco. Questa situazione è sotto gli occhi di tutti. Sono passati i tempi in cui la grande industria si mostrava cedevole di fronte alle richieste sindacali di aumenti salariali, riservandosi poi di ottenere un pronto compenso sotto forma di aumento dei prezzi. Il tutto reso possibile dall’atteggiamento conciliante dalle autorità monetarie: anzitutto sotto forma di un allargamento del credito, per fare fronte alle maggiori anticipazioni salariali, e poi di una svalutazione della lira per evitare perdite di competitività. Oggi, fissati inesorabilmente i cambi europei, trasferito il controllo della moneta dalla Banca d’Italia alla Banca centrale europea (Bce), ogni aumento dei salari incide direttamente sui profitti e non può più essere compensato da un aumento dei prezzi e da una svalutazione della lira. In teoria l’aumento dei salari potrebbe essere compensato da un aumento di produttività, e una corretta gestione industriale indicherebbe questa come la via da seguire. Ma l’industria italiana ha prescelto una strada diversa, quella della compressione del costo del lavoro. Il trasferimento progressivo della base produttiva dalla grande impresa all’impresa piccola e media, il proliferare dei contratti atipici, il lavoro nero, sono altrettanti mezzi per ridurre i costi, aumentando l’intensità del lavoro e ridimensionando drasticamente il livello della paga.
I vantaggi che l’industria italiana ne trae nell’immediato sono indiscutibili. Più dubbie sono le conseguenze a lungo termine. Un’industria basata su produzioni tradizionali, che si regge sulla compressione continua del costo del lavoro, è un’industria destinata a risultare perdente nel mercato internazionale. Altri paesi si avvalgono di costi del lavoro ben più bassi di quelli italiani e, grazie a questi, ottengono quote di mercato crescenti. La svalutazione dell’euro è servita a compensare le difficoltà per gli esportatori verso l’area del dollaro; se l’euro dovesse riguadagnare terreno, anche questa compensazione parziale verrebbe meno.

La posizione centrale del dollaro.
La svalutazione dell’euro rispetto al dollaro viene attribuita a molteplici fattori: il tasso di sviluppo maggiore dell’economia americana che lascia sperare profitti crescenti per gli investitori, i tassi di interesse più alti nel mercato americano che promettono compensi più elevati per gli speculatori. Le dichiarazioni del governatore Duisenberg, che di tanto in tanto ricorda che la Bce non intende difendere con decisione il corso dell’euro, non fanno ovviamente che incoraggiare i movimenti speculativi verso l’area del dollaro.
L’uno e l’altro elemento convergono nel provocare un flusso di capitali verso i mercati finanziari americani, flusso che produce un’immediata svalutazione dell’euro.
Non va dimenticato peraltro che la rivalutazione del dollaro risale a epoche che precedono la nascita dell’euro. Il corso del dollaro ha cominciato a risalire dal 1995, non soltanto rispetto al marco ma anche rispetto allo yen. L’andamento crescente delle quotazioni del dollaro non è estraneo all’esplosione della crisi asiatica nel 1997.
Il crollo finanziario delle economie asiatiche deve ancora trovare una spiegazione soddisfacente e forse è ancora presto per formulare una versione esauriente di quanto è realmente accaduto. Gli eventi che hanno aperto la strada alla crisi delle borse asiatiche potrebbero invece essere collegati al grande rialzo del dollaro. Nell’aprile 1995, al suo punto più basso, il dollaro valeva 1,39 marchi tedeschi; da allora ha avuto inizio un movimento ascendente che ha portato il corso del dollaro, nei primi giorni dell’agosto 1997, a sfiorare la quota di 1,90 marchi; per poi restare, nei primi mesi del 1998, sugli 1,81/1,82 marchi. Qualcosa di simile è avvenuto per lo yen: dagli 84 yen dell’aprile 1995, il dollaro è passato ai 133 dei primi giorni di gennaio 1998, per attestarsi intorno ai 125.
Per i paesi del Sudest asiatico, che prima della crisi avevano ancorato le rispettive valute nazionali al dollaro, ciò ha comportato una rivalutazione inattesa e non voluta della propria moneta rispetto allo yen e alle valute europee. Le esportazioni dei paesi asiatici non potevano non risentire di questa rivalutazione del 40% e oltre; paesi abituati a vedere le proprie esportazioni crescere al 20% all’anno, con un aumento del reddito annuo del 7-8%, si sono visti mettere rapidamente fuori mercato dal grande apprezzamento del dollaro, al quale la loro valuta era legata. Il Fondo monetario internazionale (Fmi), prontamente intervenuto, ha consigliato una politica di liberalizzazione immediata dei mercati valutari e di piena libertà nei movimenti di capitali. Un solo paese, la Malaysia, ha rifiutato di seguire queste prescrizioni e, in un momento successivo, lo stesso presidente del Fmi, il francese Camdessus 1, ha riconosciuto la ragionevolezza di questa posizione. Negli altri paesi, la fuga di capitali, ormai liberi da ogni controllo, ha prodotto drastiche svalutazioni della moneta nazionale (fino al 50% rispetto al dollaro).
Quando, uno dopo l’altro, quei paesi hanno sganciato la loro valuta dal dollaro ed effettuato drastiche svalutazioni (il won coreano e il baht thailandese si sono svalutati del 50% rispetto al dollaro), imprese e banche che si erano indebitate in dollari o in yen hanno visto improvvisamente raddoppiare il peso del debito.
Hanno così avuto inizio i crolli di borsa e i fallimenti a catena. Grandi gruppi coreani come Kia (autoveicoli) o Halla (cantieri navali) hanno dichiarato lo stato di insolvenza. La svalutazione delle monete asiatiche, unita alla catena di fallimenti e al dissesto delle imprese industriali, ha aperto la strada ad acquisizioni di imprese locali da parte di capitali stranieri. Germania, Francia, Olanda si sono affrettate ad acquisire quote rilevanti delle industrie manifatturiere coreane, mentre i capitali finanziari americani acquisiscono le imprese produttrici di servizi pubblici in Brasile. Tali acquisizioni avvengono con il beneplacito del Fmi, che anzi raccomanda l’inserimento di quote significative di capitale straniero e ha imposto ai paesi asiatici caduti sotto la sua tutela di attenuare i limiti dapprima vigenti sull’ingresso di capitali stranieri nella proprietà finanziaria di imprese appartenenti ai settori strategici.
Persa ogni autonomia nella politica economica, questi paesi, che in molti settori minacciavano di diventare pericolosi concorrenti dell’industria statunitense, diventeranno fertili mercati, aperti alle importazioni di prodotti americani.
I paesi dell’Estremo Oriente hanno mostrato una vigorosa capacità di ripresa. Nel corso del 2000, lo yen si è anche lievemente rivalutato rispetto al dollaro, il che aiuta l’industria americana a ripararsi dall’invasione di prodotti giapponesi.
La condotta della Banca centrale europea Tutti gli osservatori, commentando la caduta dell’euro, si rivolgono alla Bce con toni di rimprovero, anche se è difficile stabilire se la debolezza dell’euro venga lamentata soltanto per motivi di prestigio o anche per ragioni di sostanza.
Come che sia, la caduta dell’euro, non importa se dovuta a debolezza dell’economia europea nella sua struttura produttiva o alla capacità dei mercati finanziari americani di attrarre moneta speculativa, ha posto la Bce di fronte a dilemmi difficili da superare.
Il rimedio immediato sarebbe evidentemente quello di rialzare decisamente i tassi di interesse in modo da frenare i movimenti di capitali speculativi verso i titoli quotati in dollari. Sennonché questa sarebbe una manovra condannata da tutti: dalle imprese, che chiedono tassi di interesse miti per proteggere i propri profitti; dalle autorità di governo che vedrebbero crescere i costi del debito pubblico e riaffacciarsi lo spettro di un disavanzo crescente; dai cultori di teoria economica, che sottolineano gli effetti depressivi di un rialzo dei tassi di interesse, che scoraggerebbe gli investimenti e stroncherebbe la ripresa dell’economia faticosamente raggiunta. In vista di queste critiche, la Bce si è limitata a piccoli rialzi del tasso di riferimento; ma questi hanno reso palese agli speculatori che la Bce non intende allinearsi ai tassi americani e tanto meno superarli, il che ha reso ancora più sicuri gli speculatori nella loro azione contro l’euro.
Ad accrescere le perplessità della Bce resta poi un argomento di fondo: la svalutazione dell’euro piace agli esportatori, che si vedono regalare guadagni di competitività su tutti i mercati dell’area del dollaro.

L’euro visto dall’area del dollaro.
Se prendiamo in considerazione l’area del dollaro, noteremo che qualcosa sta cambiando nell’atteggiamento verso l’euro.
La forza del dollaro e la debolezza dell’euro, mentre avvantaggiano gli esportatori europei, espongono l’industria americana a perdite di competitività: infatti, la bilancia commerciale degli Stati Uniti è gravemente passiva. Gli osservatori sottolineano il fatto che da alcuni anni vi è stato un cambiamento nella situazione finanziaria americana: mentre in passato il disavanzo estero si accoppiava al disavanzo del bilancio federale (il cosiddetto ‘accoppiamento dei disavanzi’), oggi sussiste un disavanzo solo, quello esterno, perché il bilancio federale si chiude in attivo. Si può quindi dire, applicando un ragionamento un tantino contabile, che l’indebitamento verso l’estero, non potendo provenire dal settore pubblico, che chiude i conti in attivo, è per intero a carico del settore privato; e poiché le imprese americane continuano a fare profitti, l’indebitamento ricade per intero sui consumatori. Ma, ci si chiede: quanto a lungo potranno le famiglie americane continuare a indebitarsi? È forse possibile considerare questa situazione come stabile e capace di protrarsi indefinitamente nell’avvenire? La risposta di molti è negativa.
Negli Stati Uniti cominciano infatti a comparire segni di preoccupazione nei confronti di quella che a loro pare una sfacciata svalutazione dell’euro. Qualcosa di simile si verificò nel 1993-94 di fronte a quella che gli americani giudicavano una sfacciata svalutazione competitiva dello yen, con conseguente irruzione di merci giapponesi sui mercati americani. Oggi cominciano infatti a comparire nei quotidiani americani lamentele degli industriali che denunciano come la caduta dell’euro metta in difficoltà le imprese americane (si leggono di tanto in tanto titoli del tipo: “Cheap Euro Hurts Profits”). Lagnanze di questo tenore provengono da imprese come la Dupont , leader nel settore chimico, ma anche da imprese di settori meno prestigiosi, come la McDonald (regina del fast food , pasti veloci e veleno immediato), o la Gillette (antica signora delle lame per barba).
Ne è prova il fatto che quando, nei mesi di ottobre e novembre, la Bce ha effettuato qualche timido intervento diretto nel mercato dei cambi e ha ottenuto piccole temporanee riprese dell’euro, essa non è stata lasciata sola; assieme alla BCE sono intervenute la Federal Reserve, la Banca del Canada, la Banca del Giappone.
A questo punto, si profila un conflitto di interessi fra economia europea e area del dollaro. Se qualcosa cambierà nelle sorti dell’euro, ciò, più che alla condotta della Bce, sarà dovuto al confronto con le autorità monetarie dell’area del dollaro.