Nel 1920, Lenin scrisse che l’estremismo era la malattia infantile del comunismo. Se fosse ancora in vita e si trovasse a passare da queste parti, scriverebbe probabilmente che l’estremismo è diventato la malattia senile del liberalismo.
Precisiamo subito. Il liberalismo cui alludiamo qui ha ben poco in comune con la caricatura cui spesso lo si riduce da parte di certi pittoreschi esponenti del movimento no global. Il liberalismo, infatti, riconosce che ci sono fallimenti dello Stato ma anche del mercato. Chiede più concorrenza ma anche più regole. Chiede flessibilità per il mercato del lavoro ma anche garanzie universalistiche che, in taluni casi, arrivano a forme di reddito di cittadinanza. E’ consapevole della necessità di una politica industriale e del credito, purché non debordi in socializzazioni di una qualunque ampiezza dell’investimento, e crede fermamente in una riforma della previdenza che canalizzi il risparmio dei lavoratori verso i fondi pensione e, di qui, in Borsa.
I suoi esponenti pontificano dalle pagine della stampa che una volta si diceva borghese, ma perfino il manifesto gli ha dedicato lustro e spazio. Non meno spesso si affacciano da compiacenti ribalte televisive che li accreditano come “tecnici”, dimenticando però che la political economy non è una “scienza triste” e nemmeno allegra, ma una miscela diabolica di teoria e arte del governo.
Lo stato della finanza pubblica è al momento l’oggetto principale delle loro perorazioni. Non passa giorno senza che qualcuno dei sullodati allerti il colto e l’inclita sulle torve occhiate che i mercati finanziari getterebbero sui nostri conti pubblici. Non un giorno senza che si esorti il governo in carica a parlare di pensionati e dipendenti pubblici con le stesse parole di Adam Smith: «Vivono del prodotto della laboriosità altrui, quindi devono essere ridotti al minimo indispensabile».
Se Lenin oggi fosse qui direbbe che i liberali sono spaventati: “Vi siete spaventati come bambini per una piccola difficoltà che oggi vi sta di fronte, e non capite che, domani o dopodomani, dovrete pur imparare a vincere le stesse difficoltà, in proporzioni incommensurabilmente maggiori”.
La difficoltà che sta di fronte ai liberali è che alcune forze politiche governative sono convinte che il deficit e il debito pubblico non sono il principale dei nostri problemi. Non che questa convinzione esprima sempre una precisa consapevolezza teorica: quasi nessuno oggi ricorda più che Keynes scrisse, né più e né meno, che il debito pubblico non è altro che una speciale forma di moneta, né sono in molti a percepire che la cosa è tanto più vera oggi, visto che l’appartenenza all’Unione monetaria europea ha rimosso buona parte del vincolo precedentemente costituito dai movimenti speculativi del capitale finanziario.
Accade così che, quando un sottosegretario all’Economia osa dire che il debito sarebbe meglio stabilizzarlo, piuttosto che abbatterlo, i liberali si scatenano. Non comprendono che l’unica “necessità obiettiva” che può giustificare un rientro accelerato del debito è quella di imprimere una certa soluzione al problema della distribuzione del reddito (secondo Ricardo, “il problema principale dell’economia politica”). Non immaginano che infliggere al Paese un’altra stagione di alti profitti e bassi redditi non serve alla crescita ma solo all’on. Berlusconi (nella sua duplice veste di industriale e capo dell’opposizione). Soprattutto, non capiscono che il giudizio sulla sostenibilità o meno di un debito pubblico è cosa troppo complessa per poter essere affidata alle “teste parziali” di Moody’s e Standard & Poor’s, che quindici giorni prima del default della Enron incitavano i mercati a comprarne i titoli.
Per questo i liberali sono degli estremisti. Lo ha detto bene Mario Pirani su Repubblica del 30 giugno scorso: «l’estremismo e chi lo incarna rifiuta non solo la realtà ma la dialettica della vita che l’obbligherebbe a farsi carico degli altri, in primo luogo dei figli, quindi a tener conto del mondo reale, delle sue contraddizioni, degli inevitabili compromessi per non soccombere, del senso, talvolta deludente, del limite». Il problema, caro Pirani, è che de te fabula narratur.