«Espulsione politica, l’Italia mi ha fregato»

Parla l’imam Bouchta appena rientrato in Marocco: «Nei miei negozi vendo anche Cocacola e prodotti americani. Contesto la loro politica ma non il popolo Usa. E’ stata una espulsione politica, lo dicono anche i poliziotti. Spero di tornare presto in Italia»

«Non sono un terrorista. Contesto la politica americana non l’America. L’Italia mi ha fregato». Bouriqi Bouchta è appena arrivato nella casa di famiglia a Khourigba, cittadina a sud est di Casablanca, quando per la prima volta risponde a telefono. Espulso lunedì notte con un decreto firmato da Pisanu, l’«imam» torinese ha passato la prima notte del rientro nelle mani della polizia marocchina che lo ha lasciato andare ieri mattina, spiegando che il Marocco non ha alcuna accusa specifica contro di lui.

Si aspettava questa espulsione?

Per niente. Sono arrivati alle 3:45 del mattino e hanno citofonato. Mi sono svegliato e ho chiesto chi era, una voce ha risposto «polizia». Ho aperto il portone, sono saliti con l’ascensore e si sono presentati alla mia soglia. Ho visto poliziotti in divisa, quindi ho aperto anche se – per quanto mi riguarda – potevano perfino essere agenti della Cia travestiti da poliziotti italiani.

Si dice che lei abbia ospitato miliziani diretti in Bosnia e raccolto soldi per la Cecenia…

Falso. In casa mia dormono solo mia moglie e i miei figli e non ho mai raccolto soldi per i ceceni. Solo una volta abbiamo fatto una colletta in una iniziativa pubblica per la Palestina. An disse che erano soldi per Hamas ma non era vero.

E com’è andata, una volta che sono entrati in casa? Le hanno detto che sarebbe stato espulso?

No. Erano due poliziotti e quattro agenti della Digos. Sono stati molto educati e mi hanno trattato bene. Mi hanno solo detto che dovevo andare con loro perché avevano una notifica da comunicarmi. A quest’ora? Mi hanno risposto di sì, che era urgente. Ho chiesto se potevo vestirmi, e loro mi hanno detto «faccia pure». Prima di partire mi hanno anche chiesto di portare con me i documenti e il passaporto.

E’ in quel momento che ha capito che stavano per rispedirla in Marocco?

Sì. Ma non mi aspettavo certo di partire il giorno stesso. Credevo ci fosse una qualsiasi forma di procedura, che mi rinchiudessero in una cella o in un cpt.

E invece come è andata?

Siamo partiti su tre macchine. Alle 4:00 eravamo in questura. Mi hanno accompagnato nell’ufficio del capo della Digos e mi hanno detto: «Ci dispiace, ma non dipende da noi. Sono ordini del ministro e li dobbiamo eseguire. Il tuo permesso è stato revocato e dovrai tornare in Marocco, oggi stesso. Se vorrai, potrai ricorrere al Tar del Lazio, che potrà decidere sul provvedimento, ma questo lo potrai fare solo dopo, quando sarai arrivato in Marocco».

Ha potuto contattare qualcuno?

Ho chiesto se potevo chiamare il mio avvocato ma non me l’hanno permesso. La mia famiglia, almeno, e mi hanno risposto che avrebbero visto cosa potevano fare, ma alla fine non ho potuto chiamare nemmeno loro.

E dopo?

Verso le sei e un quarto circa, sono salito su una macchina con altri tre agenti e abbiamo imboccato la tangenziale. Alle 9:30 eravamo all’aeroporto di Malpensa per prendere il primo aereo disponibile per il Marocco, un aereo dell’Alitalia, in prima classe.

Come è andata sull’aereo?

E’ decollato verso le 11.00. Ho chiacchierato molto con gli agenti che mi accompagnavano: sul Marocco, sulla mia espulsione che era – secondo loro – un’espulsione politica. Mentre andavo in bagno, sempre accompagnato da uno di loro, li ho sentiti indicare altri due agenti, saliti a bordo a Milano, in incognito, senza scambiare nessuna parola con gli altri.

Aveva le manette?

No. Uno degli agenti era alquanto muscoloso, neanche cinque uomini l’avrebbero potuto rovesciare. Prima di partire, ha lasciato le manette ad un suo collega, dicendogli che, oltre a non servirgli – visto che accompagnava un imam – aveva in mente di fare un giro a Casablanca. Mi hanno perfino ringraziato per la collaborazione. Altri a cui era toccata la stessa sorte, mi hanno raccontato, facevano scenate e si rifiutavano di salire con le buone maniere. Dovevano spedirli come pacchetti.

E una volta arrivato in Marocco?

Sono arrivato lì alle 16:00, ora di Casablanca. Gli agenti italiani hanno consegnato la mia documentazione alla polizia marocchina e non li ho più visti. Io non avevo nemmeno la mia carta d’identità marocchina, necessaria in questi casi. I poliziotti mi hanno accolto benissimo, mi hanno detto «Alza la testa, sei nel tuo paese». Mi hanno dato da bere e c’è stato un interrogatorio di due ore in cui ho raccontato tutta la mia vita, da quando sono emigrato 15 anni fa. Loro sapevano tutto, anche della Lega Nord e dei miei diverbi con i suoi esponenti. Mi hanno detto di non aver paura che non ci avremmo impiegato molto.

E adesso cosa farà? Che ne sarà della sua famiglia in Italia?

Spero di poter tornare, sono fiducioso nella giustizia italiana. I miei progetti, i miei negozi, sono tutti li. Tra l’altro ne ho solo due, a Torino. E’ sconvolgente quante falsità raccontino su di me parlando di svariati negozi a Torino e Milano, di due mogli o altre menzogne simili. Negozi in cui vendo, tra l’altro anche Coca-cola e altri prodotti americani. Io non ce l’ho con il popolo americano ma con la politica americana. Spero che venga guidata, un giorno, da un uomo che vuole veramente la pace. In questo momento, hanno tutta la mia solidarietà per l’uragano. Se avessi avuto intenzione di attaccare l’Italia o pianificare un attentato non mi sarei mai organizzato per viverci definitivamente, né ci avrei lasciato i miei figli. Sinceramente, mi sento fregato.