Esplode il dramma casa 430 famiglie occupano

Esplode l’emergenza casa. Se a Napoli 150 sfrattati occupano da venerdì una basilica (ieri sera sembrava essere stata individuata una soluzione), a Roma domenica 430 famiglie hanno occupato simbolicamente una serie di palazzine del gruppo Santerelli, costruttore romano della nuova generazione. Poi, ieri, hanno abbandonato le case per sciamare con un corteo di macchine fino a piazza Venezia, dove hanno montato le tende in attesa di essere ricevuti dal Commissario che regge il Comune di Roma in attesa del nuovo sindaco.
In quest’ultimo caso gli appartamenti erano giù stati pre-venduti, contro il versamento di una caparra, e i media padronali hanno subito gridato alla «guerra tra poveri» e all’assenza di repressione. Soprattutto Il Messaggero, foglio in mano a Caltagirone, palazzinaro di lungo corso democristiano. Ma l’iniziativa – messa in atto dalle sigle a sinistra della Sinistra Arcobaleno – ha anche creato qualche malinteso in una campagna elettorale in cui la coalizione pro Rutelli fatica a vincere. Il segretario romano di Rifondazione Smeriglio ha prima parlato di una «occupazione sbagliata perché mette i poveri contro i poveri» e poi ha plaudito al «senso di responsabilità» degli organizzatori che hanno trasformato l’occupazione in presidio.
In realtà, soltanto «i poveri» sembra riescano a capire i problemi di quelli come loro, anche se appena meno in difficoltà. Così gli occupanti della Bufalotta, organizzati nel Blocco precario metropolitano, si sono limitati a presidiare le palazzine, dormendo la prima notte sotto le tende; senza entrare negli appartamenti per non rovinarli. Sono case da «dormitorio elegante», a pochi passi dal megacentro commerciale Porta di Roma, col barbecue sul balcone e la piscinetta condominiale. Un compromesso stile «vorrei, ma non posso» per impiegati destinati nel weekend a restare prigionieri nella loro casa, senza o quasi collegamenti con la città. Ci vogliono comunque 300.000 euro per 60-70 metri quadri.
L’occupazione, spiegano gli organizzatori, non ha lo scopo di «prendersi» le case altrui, ma porre con forza il problema dell’edilizia residenziale pubblica, ormai dismessa, come unica soluzione praticabile per tutte quelle fasce sociali impossibilitate a entrare nel mercato dell’affitto o dell’acquisto. «Non vogliamo vivere nelle new town (quelle cui allude un Berlusconi, ndr); sosteniamo la riqualificazione dei quartieri esistenti, il riutilizzo del patrimonio sfitto e la valorizzazione di ciò che non è usato o abbandonato».
Erano anni che le occupazioni non prendevano di petto i palazzinari. Anni di ritiro in istituti scolastici abbandonati, con una popolazione fatta soprattutto di immigrati e senza tetto. Il dato che balza agli occhi con questa occupazione è che si tratta quasi soltanto di famiglie italiane. Ci sono alcuni nuclei subshariani, un paio di rumeni, qualche magrebino. Ma il 90% è fatto di nostri vicini di casa che sono stati triturati dalla precarietà. «Coppie giovani», donne sole con figli, famiglie intere; alla base c’è sempre un reddito che non può reggere le «sfide del mercato». C’è persino chi ci ha provato, a compare casa; ma è stato schiantato dal rialzo dei tassi di interesse e se l’è vista pignorare. Due ragazzi sui 30 anni, con un bambino di un anno, lui spiega: «Prendo 1.000 euro al mese, a tempo determinato in una ditta di pulizie. Ogni sei mesi vengo liquidato e riassunto. Io lavoro da quando ho 14 anni, ho smesso di studiare dopo le medie». Altri due, qualche anno di più, hanno un secondo figlio in arrivo. Lui elettricista, contratti di sei mesi per «imprese» che hanno i subappalti anche dai ministeri. Lei è ragioniera, ha lavorato per un commercialista; poi è rimasta incinta e «a spasso». Una coppia rumena atipica è in Italia da sei anni, documenti regolari; lei colf a singhiozzo, lui un musicista, qualche volta ingaggiato per cantare nei matrimoni dei connazionali. «Siamo stati in affitto da zingari serbi, in una roulotte; poi lo sgombero». Da allora un po’ in affitto, fino allo sfratto, oppure da amici. Provano anche questa soluzione. La ragazza africana ha addirittura un marito italiano, conosciuto laggiù ma che si rifiuta di lavorare. E’ costretta a conviverci ancora, nonostante litigi e botte: «Devo trovare una soluzione». Lavora, naturalmente. E naturalmente in una «cooperativa» di quelle finte, che non sai neppure chi le gestisce davvero.
C’è la separata, sfrattata perché il padre di sua figlia ha smesso di pagare l’affitto («e dire che aveva giurato di non mandare la figlia sotto i ponti»). Ma la manda al liceo, perché abbia un’occasione migliore della sua. E’ uscita da una seconda convivenza, «ma ora basta con gli uomini». Ha lavorato sempre, ma sempre in nero. Per la cresima della ragazza ha dovuto organizzarsi con la sorella «per non far far brutta figura a mia figlia con le compagne di scuola».
Passa un trentenne azzoppato. Lavorava in nero, è caduto. Ora viene scartato regolarmente, per qualsiasi lavoro.
E poi una massa di sfrattati. Una signora racconta di bravi ragazzi che hanno difeso lei e altri, con «picchetti antisfratto» e una lunga serie di spostamenti da una casa all’altra («noi sfrattati ci aiutiamo tra noi, ospitando altri come noi finché non ci buttano fuori»). Guadagna 500 euro al mese, due figli, una minorenne e già incinta. L’ex marito è scomparso e «s’è dato nullatenente» per non pagare gli alimenti. La cosa più terribile per tute queste donne è che gli assistenti sociali minacciano di togliere loro i figli, «se non troviamo una situazione abitativa migliore».
Un’umanità molto «flessibile». Così tanto da non poter sopravvivere.