«Ergastolo per i torturatori»

Quattro ergastoli su cinque agli ufficiali argentini, accusati di aver ucciso tre cittadini italiani durante la dittatura. Queste le richieste del pubblico ministero al processo Acosta, in corso a Roma nell’aula bunker di Rebibbia. Il processo Acosta è uno dei due tronconi del procedimento denominato Esma, dal nome della Scuola di meccanica della Marina, uno dei principali centri di tortura, nel cuore di Buenos Aires, in cui oltre 5.000 persone vennero fatte scomparire nei cosiddetti «voli della morte». L’altro procedimento, che vede imputato l’ammiraglio Emilio Massera, è ancora in sospeso perché Massera, colpito da ictus, è stato dichiarato incapace di intendere e di volere. E proprio per verificare l’effettivo stato di salute dell’ammiraglio, il Gup Mancinelli ha inviato in Argentina un perito, che fino a ieri però non aveva ancora ottenuto le autorizzazioni necessarie per incontrare l’imputato.
Le richieste di condanna, riguardano invece Eduardo Acosta, Alfredo Actiz, Antonio Febres,Raul Vildoza tutti contumaci, e tutti ex appartenenti al «Grupo de Tarea 3.3.2», istituito presso la Escuela Superior de Mecanica de la Armada. Per Acosta, l’accusa fa riferimento al sequestro e all’omicidio dell’imprenditore edile Giovanni Pegoraro e di sua figlia Susanna, studentessa. I Pegoraro vennero sequestrati e portati all’Esma il 18 giugno del ’77 e fatti scomparire. Susanna, incinta, fu eliminata dopo aver partorito una bambina, che verrà «affidata» a una coppia di militari. Elisa Tokar, autrice di un libro collettaneo – Le reaparecide -, pubblicato da Stampa alternativa, ha raccontato di aver incontrato Susanna all’Esma, prima e dopo il parto. Nel corso dell’ultima udienza, la testimonianza di Elisa e di altre sopravvissute, ha ricordato la ferocia di El Tigre, alias Eduardo Acosta.
E Raul Cubas, ex guerrigliero detenuto all’Esma, ha raccontato che i montoneros, uno dei gruppi che si opponevano con le armi alla dittatura, avevano distribuito ai militanti capsule di cianuro perché abbreviassero le loro sofferenze sotto tortura. Ma una partita aveva preso aria ed era andata a male, così lui si era risvegliato fra i cadaveri. «El Tigre – ha ricordato al processo Cubas – stava dicendo di aver sistemato in cantina 200 cadaveri, stipati come savoiardi. Io ero uno di quei savoiardi».
Ora contro El Tigre e soci, potrebbe essere emessa una pesante sentenza di condanna il prossimo 14 marzo. È quanto sperano le parti civili. Giancarlo Maniga, difensore dei Pegoraro, dice al manifesto: «Il processo ha permesso di far luce sulle modalità concrete dei sequestri, degli omicidi, dei trasferimenti senza ritorno dei detenuti. È importante che si sia svolto in Italia, paese di origine di molte vittime ma anche di diversi accusati».
Sui 30.000 scomparsi durante gli anni della dittatura argentina (1976-83), circa 1.000 furono gli italiani, molti dei quali eliminati all’Esma. La loro sorte non fu certo al primo posto nelle preoccupazioni del governo italiano di allora: anche perché, mentre il generale Rafael Videla, evitando il clamore suscitato in Cile da Augusto Pinochet, metteva la sordina agli orrori, prosperavano gli affari di una certa Italia delle stragi e delle trame: Massera che aveva accumulato una fortuna incamerando i beni dei sequestrati, era membro della P2 di Licio Gelli, e all’Esma funzionava a pieno ritmo un centro di falsificazione di documenti ad uso di tutte le trame. Il fotografo Victor Basterra, torturato e detenuto nelle ultime fasi della dittatura, fu costretto a contraffare centinaia di passaporti, fra cui proprio quello di Gelli. Una testimonianza, quella di Basterra, che ha dato al processo uno dei rari momenti di visibilità sui grandi media.
Oggi, grazie anche al lavoro del comitato di sostegno ai sopravvissuti, il governo italiano è parte civile nel processo Esma. «E speriamo – dice ancora l’avvocato Maniga -che, a sentenza definitiva, venga richiesta l’estradizione dei colpevoli». Nessuna richiesta di estradizione è però ancora stata avviata nei confronti degli ufficiali della Marina militare, condannati in un precedente processo, già passato in giudicato: «in questo caso la difesa non ha poteri – afferma Maniga – e il governo dev’essere sollecitato dal magistrato, perciò abbiamo chiesto al pubblico ministero di intervenire».