«Eravamo a Sarajevo senza protezioni»

I primi a parlargli di «uranio impoverito» sono stati i medici, quelli dell’ospedale civile dove ad un certo punto ha scelto di farsi fare degli accertamenti. Ma ormai era tardi. Il capitano Carlo Calcagno, elicotterista, un tipo forte che parla di se come «un fortunato» perché dopo quattro anni di malattia è ancora in piedi, stava già parecchio male alla tiroide, all’ipofisi, al fegato e al midollo. Oggi la bugia che gli brucia di più è quella dei medici dell’ospedale militare che gli consegnarono un check up perfetto giusto un mese prima che decidesse di farsi fare nuove analisi lontano dalla caserma e di nascosto da tutti:
«Non ho trovato un medico capace di confermare che la mia situazione clinica possa essere degenerata in quel mese di buco tra il check up militare e quello fatto durante le ferie. Il problema c’era chissà da quanto, ma l’ho capito solo quando stavo troppo male per continuare a fidarmi dei controlli annuali dell’Esercito».

Nel ’96, l’anno del documento che avvisa l’esercito italiano dei rischi collegati all’uranio impoverito, lei dov’era?
Ero in missione in Jugoslavia, nella brigata Sarajevo nord comandata da Agostino Pedone, alla guida dell’unico elicottero. Ero tenente e avevo 28 anni. Durante i quattro mesi di missione ho volato per cinquanta ore che in quella situazione non sono affatto poche. E ho passato molto tempo sorvolando la fabbrica poco lontano dalla città in cui pare che producessero armi. La Nato l’aveva letteralmente polverizzata con migliaia di proiettili all’uranio.

Aveva mai sentito parlare di quei proiettili o dell’uranio impoverito in generale? Magari dai colleghi…
No, ho dovuto informarmi solo dopo. Oggi sono un esperto, ma allora non ne sapevo nulla.

Come vive oggi?
Non lavoro, non faccio il mestiere che dovrei e che volevo fare perché sono sempre condizionato dalla terapia o dagli accertamenti. Vivo ad ondate, alcuni giorni li passo totalmente a letto, altri riesco a muovermi e mi sembra quasi di poter far tutto. Ma dura poco.

E ora l’Esercito la aiuta?
La mia causa di servizio è stata riconosciuta, ma solo perché persino i medici militari alla fine hanno scritto che «verosimilmente» la mia situazione è causata dall’impiego in Bosnia e dall’uranio impoverito. Di questo la causa di servizio non parla, ma quel referto io ce l’ho e l’ho persino fatto vedere in tv. Credo che sia questo il motivo per cui mi hanno dato quel riconoscimento, che poi al momento è solo un pezzo di carta.

Vuol dire che non le è arrivato nemmeno un euro?
No. La commissione di inchiesta sull’uranio impoverito della scorsa legislatura mi aveva convocato e io dissi appunto che la prima cosa da fare per aiutarci era darci subito quello a cui abbiamo diritto. Fossero anche dieci centesimi oggi posso usarli per le medicine, domani non mi serviranno più a nulla. La burocrazia ha tempi lunghi, ma con noi lo sono «volutamente» e questa parola, guardi, la può scrivere sottolineata perché gliela firmerò fino a quando campo.

Quando si è accorto di essere malato?
Nel 2002. Ero già istruttore di volo a Viterbo, ma mi sentivo male, ero sempre stanco, avevo forti mal di testa nonostante quegli accurati controlli annuali garantiti dall’Esercito che credevo fossero una fortuna. Dopo il check up del 10 ottobre 2002 mi sono messo in ferie, avevo prenotato degli accertamenti in una clinica privata e non volevo che si sapesse. E lì, il 18 novembre, un mese dopo quel controllo perfetto, ho scoperto che stavo male, avevo forti disfunzioni alla tiroide e il mio quadro clinico era già fortemente compromesso. Solo allora mi hanno spiegato dell’uranio.

All’epoca i giornali ne parlavano già…
Forse sì, ma quando le cose non ci riguardano tendiamo sempre a non badarci.