Episodi di conflitto sociale nelle banche del nuovo millennio

*Segreteria Nazionale Cub-Sallca

Il titolo è un po’ roboante, ma vuole richiamare l’attenzione del lettore sul fatto che i lavoratori del settore credito, che pensavano di rimanere “protetti” da dinamiche di conflitto che interessavano altri settori lavorativi, oggi ne vengono investiti in pieno.
Citerò alcune vicende specifiche per chiarire meglio questo concetto.

Nell’aprile del 2009 Intesa Sanpaolo costituiva una società consortile (ISGS) al fine di ottenere un risparmio fiscale dopo che era cambiata la legislazione sull’esenzione Iva per le operazioni infragruppo.
L’argomento era del tutto fondato, tanto è vero che altri gruppi bancari ed assicurativi eseguivano la stessa operazione, ma i lavoratori di Intesa Sanpaolo, già provati dalla recente fusione, e per nulla fiduciosi verso le politiche dei loro manager, reagivano con forte preoccupazione. Nella nuova società, infatti, confluivano settori lavorativi, come i servizi amministrativi (cosiddetti back office) ed informatici, considerati, da sempre, a forte rischio esternalizzazione.
Una conferma di queste preoccupazioni sarebbe arrivata poco dopo, con la scoperta che, nonostante le rassicurazioni aziendali, parte delle lavorazioni del consorzio stava finendo al polo della Romania: un classico esempio di delocalizzazione, una vicenda ancora aperta e dagli sviluppi da verificare, anche se altre banche hanno già intrapreso questa strada da tempo.
Per far digerire l’operazione consortile i sindacati del primo tavolo avevano sottoscritto un accordo (“con il massimo di garanzie”) contenente anche una clausola (si è scoperto poi “offerta” dall’azienda) che, “in caso di cessioni anche parziali” di settori del consorzio, garantiva il rientro in Intesa Sanpaolo dei lavoratori dei settori ceduti.
Qui veniamo al bello: tra i settori collocati nel nuovo consorzio l’azienda poneva anche Banca Depositaria, un insieme di servizi che, già all’epoca, si supponeva Intesa Sanpaolo fosse interessata a vendere.
Per la cronaca Banca Depositaria si occupa dell’amministrazione delle quote dei fondi d’investimento e del calcolo del valore delle stesse. I lavoratori sono 395, collocati a Milano e Torino e quasi metà di loro sono lavoratori a tempo determinato.
Pur di guadagnare una manciata di milioni di euro in termini di risparmio fiscale, quindi, l’azienda collocava Banca Depositaria nel consorzio, ben sapendo di aver firmato un accordo che metteva i lavoratori al riparo dalla possibile cessione.
Si arriva così a fine dicembre 2009, quando Intesa Sanpaolo trova un acquirente (la statunitense State Street) e prepara il gioco delle tre carte: non potendo cedere direttamente i lavoratori, al momento “protetti” nella società consortile, li fa rientrare in Intesa Sanpaolo per poi cederli ad una nuova società che sarà oggetto della successiva cessione.
Un’operazione truffaldina, che scatena le ire dei sindacati del primo tavolo, che denunciano l’azienda per attività antisindacale, ottenendo la vittoria nel giudizio di primo grado.
Il pronunciamento del giudice però non entra nel merito della cessione, per cui l’azienda decide di procedere come se niente fosse.
E qui comincia la parte più interessante della storia: i lavoratori non ci stanno e, attraverso la Falcri, sindacato autonomo che siede al secondo tavolo, ottengono la proclamazione di quattro giorni di sciopero in due settimane, più un nutrito calendario di sciopero degli straordinari.
Le rivendicazioni sono: passaggio a State Street solo con distacco o cessione su base volontaria; garanzie per il rientro dopo il distacco; assunzione in pianta stabile per tutti i lavoratori a tempo determinato.
I primi due scioperi hanno uno straordinario successo: forte adesione con l’aggiunta di manifestazioni di piazza, cui partecipa anche la Cub-Sallca, sindacato di base che si schiera subito a sostegno delle iniziative di lotta.
L’effetto per l’azienda è devastante: si blocca il calcolo delle quote dei fondi (NAV in linguaggio tecnico), che resta in arretrato di giorni, provocando anche l’intervento della Consob.
Per correre ai ripari Intesa Sanpaolo apre, formalmente, la procedura di confronto sindacale sulla cessione. La norma del contratto nazionale del credito impone questa procedura, che dura 50 giorni, durante i quali l’azienda non può procedere con la cessione, ma i sindacati trattanti devono evitare ogni forma di lotta. E’ bene sapere che alla scadenza dei 50 giorni, in assenza di accordo, l’azienda può procedere comunque: si tratta di una chiara norma di garanzia…per le aziende.
La Falcri, per poter partecipare alle trattative, è costretta a sospendere le ulteriori giornate di sciopero programmate, ma a scombinare i giochi per l’azienda giunge la proclamazione di sciopero del sindacato che non siede, suo malgrado, a nessun tavolo: la Cub-Sallca.
E qui sembra di vedere un film di Ken Loach. Lo sciopero è programmato per lunedì 15 febbraio (oltre al solito calendario per gli straordinari).
Il venerdì mattina precedente lo sciopero i lavoratori si trovano sul computer una mail che, in modo perentorio, dichiara lo sciopero illegittimo e minaccia sanzioni disciplinari. Allegato un documento alla Cub-Sallca (per conoscenza alla commissione di garanzia sul diritto di sciopero) con argomenti da azzeccagarbugli.
La commissione di garanzia non interviene, confermando la regolarità dello sciopero, ma i sindacalisti della Cub-Sallca devono affannosamente rassicurare i lavoratori. Non bastasse questa bravata aziendale, tra sabato e domenica molti lavoratori sono raggiunti da telefonate di vari responsabili, che esercitano improprie pressioni per convincerli a desistere dallo sciopero.
Alla fine, pur con qualche defezione, lo sciopero riesce, così come l’ennesima manifestazione di piazza. Mentre scrivo la vicenda è ancora in corso.
In parallelo a questa vicenda se ne svolge un’altra interessante.
Sempre in Intesa Sanpaolo, i sindacati del primo tavolo (per la prima volta senza la Fisac-Cgil, che ha finalmente un sussulto di dignità) firmano un incredibile accordo che introduce, di fatto, il salario d’ingresso.
L’accordo prevede 300-450 assunzioni con contratto di apprendistato (con ulteriore sottoinquadramento rispetto al CCNL), decurtato del 20% nella parte economica e orario settimanale aumentato di 2 ore e 30 minuti. Oltretutto, alla fine dell’apprendistato, i lavoratori otterranno sì l’applicazione del CCNL, ma non avranno tutela per i trasferimenti e potranno essere ricollocati a discrezione della banca.
La “nuova occupazione” in realtà è a tutti gli effetti sostitutiva, poiché l’azienda, mentre assume a condizioni “stracciate”, non rispetta l’accordo che prevedeva l’assunzione di 450 apprendisti per sostituire (in modo molto parziale) le fuoriuscite per il Fondo Esuberi (in pratica prepensionamenti).
Inotre, dei 900 lavoratori a tempo determinato presenti in azienda solo 400 verranno confermati subito.
La cosa grave è che, ovviamente, anche altre banche hanno dichiarato di volere gli stessi “sconti” e tutto ciò nell’anno in cui scadrà il contratto di categoria.
Tutto questo avviene in uno scenario dove, nell’ultimo anno, centinaia di lavoratori bancari sono stati licenziati. Si è trattato di banche piccole e/o straniere. La crisi finanziaria c’entra fino ad un certo punto (è il caso di filiali estere che hanno chiuso i battenti in Italia), perché in altri casi si sono registrati episodi di malagestione dei manager.
In ogni caso è evidente che ormai anche il settore del credito non è esente dai processi di pesante ristrutturazione che hanno investito il mondo del lavoro. Purtroppo, verrebbe da dire, anche in questo settore si aprono gli spazi per una presenza del sindacalismo di base e c’è la necessità di condurre lotte molto determinate per respingere i progetti dei banchieri.