Epigrafi resistenti come la pietra ruvida del ricordo

La copertina riproduce il disegno originale di Carlo Levi: si vede in primo piano l’immagine aggettante, rilevata da un biancoenero terreo, di una donna ancora giovane che stravolta brandisce uno zoccolo nell’attimo in cui sta per scagliarlo; dietro di lei salgono lingue di fuoco scarlatto, alla sua sinistra si impilano maschere di cadaveri carbonizzati, mentre alla sua destra, in basso, si insinua la testa di un bambino col volto livido, gli occhi enormi e spiritati. Il disegno di Levi, quasi una pedagogia della dignità e della fierezza tellurica, allude al gesto estremo di Genny Marsili, morta nel rogo di Sant’Anna di Stazzema. Fu lo stesso Piero Calamandrei a commissionare il disegno in vista della pubblicazione da Laterza di Uomini e città della Resistenza nel primo decennale del 25 aprile, un testo che oggi torna, mezzo secolo dopo, nel catalogo del medesimo editore («Storia e Società», pp. 282, € 14.00) a cura di Sergio Luzzatto e con una partecipe prefazione di Carlo Azeglio Ciampi. (Il primo foglio di guardia del libro annuncia anzi un piano editoriale, sempre curato da Luzzatto, L’Italia di Piero Calamandrei, i cui prossimi due titoli dovrebbero essere Al fronte. Lettere e scritti della Grande Guerra, a cura di Silvia Calamandrei e Alessandro Casellato, e Una famiglia in guerra. Lettere 1939-1945, a cura di Alessandro Casellato, nonché tre volumi dedicati agli scritti usciti sul «Ponte», fra il 1945 e il 1956, rispettivamente a cura di Mario Isnenghi, Mimmo Franzinelli e ancora Sergio Luzzatto). Ci informa una nota che Uomini e città della Resistenza, un libro che molti hanno ritenuto un classico, uno dei rari libri «civili», per etimologia, della nostra letteratura, non ha venduto nel suo mezzo secolo più di diecimila copie. Tuttavia dev’essere passato in molte più mani (di ex partigiani, di studiosi, ma anche di semplici lettori) se è vero che, nonostante la politica dell’oblìo (anche a sinistra) e la canèa revisionista, il nome di Piero Calamandrei corrisponde tuttora a qualcos’altro che non sia l’icona di un Pater Patriae o, peggio, una delizia bibliografica per happy few. E’ vero che i giovani di oggi ne ignorano il nome però è vero altrettanto che molti adulti, della generazione dei padri, riescono a ricordare i versi della lapide murata nel municipio di Cuneo per averli letti in un libro di scuola, come ancora capitava negli anni settanta; magari il nome dell’autore non dice loro più nulla, ma il tono, quella fermezza nuda e frontale, vale a dire speciale nel paese della retorica conservatrice e patriottarda, fece a tempo a entrare nel sound dell’epoca, quasi chiedendo d’essere cantata come fossero strofe degli Stormy Six, che allora suonavano Stalingrado e Dante Di Nanni: «Lo avrai/ Camerata Kesselring/ Il monumento che pretendi da noi italiani/ Ma con che pietra si costruirà/ A deciderlo tocca a noi// Non coi sassi affumicati/ Dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio/ Non colla terra dei cimiteri/ Dove i nostri compagni giovinetti/ Riposano in serenità/ Non colla neve inviolata delle montagne/ Che per due inverni ti sfidarono/ Non colla primavera di queste valli/ Che ti vide fuggire// […]// Su queste strade se vorrai tornare/ Ai nostri posti ci ritroverai/ Morti e vivi collo stesso impegno/ Popolo serrato intorno al monumento/ Che si chiama/ Ora e sempre/ Resistenza//».

Coi nomi di Genny Marsili, dei fratelli Rosselli, di Dante Livio Bianco e dei figli di Alcide Cervi, con le città martirizzate di Ferrara, Firenze, Parma, Cuneo, viene appunto costruito il monumento che si intitola Uomini e città della Resistenza, una raccolta di ritratti e discorsi commemorativi stesi nello stile che è tipico di Calamandrei: un italiano secco, tagliente, dove anche l’ardore è sorvegliato; pur sempre una retorica ma che sa tuttavia rovesciare e mutare, nel segno dell’epica, la retorica tradizionale, che in Italia è quella segnata dal vuoto e dal falso, ora della specie gesuitica ed edificante (con propaggini di latinorum burocratico) ora invece del più consueto genere nazionalista. E non è un caso che a Calamandrei (grande giurista, avvocato dall’originalissimo stile forense) venga infatti attribuita la stesura o una consulenza decisiva alla stesura della Costituzione repubblicana, il cui dettato sobrio e sodo nel lessico, quasi indenne da artifici sintattici, sta a distanza astrale rispetto alla retorica convenzionale della giurisprudenza. Semmai, la retorica di Calamandrei è la retorica di un giacobino che abbia in odio le «gride» e si attenga alla cadenza esatta, persino spietata, della Colonna infame. La questione della retorica è centrale per intendere e magari discutere (da parte di chi non è uno storico di professione ma più semplicemente un lettore) l’introduzione di Sergio Luzzatto, peraltro densa, penetrante e come al solito appoggiata a documenti di prima mano.

Prendendo di petto la vulgata, Luzzatto muove da un vistoso paradosso ben attestato dal Diario di Calamandrei: costui, membro di Giustizia e Libertà e poi prestigioso esponente del Partito d’Azione, non partecipò alla Resistenza ma sfollò per nove mesi fra il 1943 e il 1944 a Colcello Umbro, tenendosi al riparo in una zona grigia dove lo scoramento e il senso di colpa gli dettavano sia deluse espressioni sulla «fiacchezza svirilizzata» dei giovani italiani sia dure requisitorie sull’assenza, in quegli stessi giovani, di gesti concreti e decisivi (la chiama con un neologismo d’altri tempi, ricordando Pietro Micca, mancanza di «pietromicchismi»). Dunque fu, alla lettera, un desistente: «Così mentre la resistenza italiana andava muovendo i primi difficilissimi suoi passi, colui che – ex post – meglio di ogni altro avrebbe saputo dirne la necessità o addirittura la poesia, consegnava al prudente segreto di un diario la più scorata tra le professioni di impotenza». Per paradosso ulteriore, un resistente di primo piano divenne invece suo figlio Franco, uno dei protagonisti dell’azione di via Rasella, nel cui percorso formativo (lo conferma il Diario corrispettivo, che Luzzatto analizza a contrasto deducendone la dinamica psicologia, il conflitto generazionale e la lacerazione politico-culturale) tutto contraddiceva l’ombra invasiva del padre, dagli entusiasmi giovanili per il cosiddetto fascismo di sinistra alla successiva scelta di aderire al Partito comunista clandestino e di partecipare alla Resistenza armata. Suggerisce Luzzatto che nel loro riconciliarsi (a Roma liberata, luglio `44) c’è come una reciproca proiezione, una vicendevole restituzione, insomma uno scambio simbolico: è lì che Piero Calamandrei pensa alla rivista che chiamerà «Il Ponte» ed è lì che ha radice la sua vicenda di scrittore della Resistenza.

Diversi sono i tratti caratterizzanti che lo storico ascrive a Uomini e città della Resistenza: un radicamento nel paesaggio che fermenta alla stregua di un genius loci (non la classica montagna dei partigiani ma luoghi e volti dell’Italia centrale, l’«umile Italia» che l’autore conosceva in prima persona) e questo è un fatto che apparenta il libro alla zona più viva della produzione resistenziale, tra l’epica di Beppe Fenoglio e l’epopea pìcara di I piccoli maestri di Luigi Meneghello, come testimonia da ultimo la bella antologia di Gabriele Pedullà Racconti della Resistenza (Einaudi) fondata su un canone al plurale, emancipato dal compatto grigiore neorealista; b) la capacità di tradurre in emblemi eloquenti e perciò memorabili una quantità di testimonianze allora disperse e non ancora solidificate nel senso comune: basti pensare all’epigrafe («Non piangetemi, non chiamatemi povero. Muoio per aver servito un’idea». Guglielmo Jervis) tratta dalle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana uscite in volume solo tre anni avanti; c) infine il talento per il martirologio, tanto più impellente per chi ritiene il nazifascismo non solo un regime dispotico ma anche e soprattutto un vulnus alla sacralità della vita: legittimazione e anzi consacrazione dello spargimento di sangue, della Resistenza come sublimazione del famoso «pietromicchismo».

«Tuttavia – nota Luzzatto – la sensibilità di Calamandrei inclinava meno all’elogio della violenza impartita e più ell’elogio della violenza subita». Tra le suggestioni della sua cultura letteraria non può infatti non incombere il nome di Carducci e più in generale di una linea mortuaria che culmina, per ennesimo paradosso, nella parola di quegli ermetici che Piero rinfacciava a Franco alla pari di un’acne giovanile. In altri termini, nella zona più calda dell’introduzione (tale da alludere, in certi momenti, a una requisitoria) Luzzatto addita la retorica mortuaria di Calamandrei (parla ad esempio di «retorica funeraria applicata al mito della Resistenza») come fosse l’ultima variante del classico dulce et decorum pro patria mori ovvero un effetto di ritorno, più o meno premeditato, della Bella Morte bestemmiata da tutti gli esteti e da tutti i reazionari del secolo scorso. (Quasi ovvio ricordare, al riguardo, che la necrologia è un tema specifico della ricerca di Luzzatto, vedi Il corpo del duce, Einaudi 1998). Scrive dunque lo storico: «Il fatto è che il criterio della `bella morte’ non poteva bastare a distinguere moralmente i caduti per il duce dai caduti per la libertà. Misurare le cose al metro del coraggio davanti al nemico, o al metro dell’intensità di una fede, non aiutava a sceverare le ragioni dai torti, i valori dai disvalori. Il discorso di Calamandrei trovava uno dei suoi limiti maggiori proprio qui: nell’insistere sull’ars moriendi come criterio attendibile di discriminazione fra i buoni e i cattivi. Lo trovava, in generale, nella vertigine lapidaria, nella foscoliana ossessione per un’etica e un’estetica dei sepolcri. Assimilare gli uomini della Resistenza ai morti della Resistenza aveva un ulteriore effetto, e non dei meno gravi: sollevava Calamandrei dalla necessità di fare i conti, oltreché con i caduti, con i sopravvissuti, oltreché con i martiri della guerra partigiana, con i reduci di essa, con gli ex combattenti che dopo la Liberazione avevano dovuto variamente riadattarsi alla vita civile».

Qui sorge il dubbio se sul serio la foscoliana ossessione dei sepolcri sia un alibi retroverso o un tratto tipico della conservazione e della reazione. E qui viene anche in mente ciò che racconta Herzen, in Passato e pensieri, a proposito di un incontro con Mazzini a Londra: a una domanda dello scrittore russo su Leopardi, Mazzini rispose più o meno che il suo fissare in volto la morte, deprivato di ogni retorica, aveva un pessimo effetto sui cospiratori e sugli uomini d’azione in generale: perciò l’autore di Mazzini, l’idolo di almeno due generazioni di rivoluzionari, era proprio Foscolo. Luzzatto sa benissimo che la tomba di Predappio non è la cripta delle Fosse Ardeatine e nemmeno la lapide di Cuneo. Perché c’è culto dei morti e culto dei morti. C’è un culto nostalgico e autoassolutorio e, d’altro lato, c’è un culto necessario, umano, vissuto nella forma di vincolo interiore e di pegno etico, per cui il ricordo dei morti non è l’estetizzazione della morte e, meno che mai, la religione della morte. Forse sono ovvietà, ma chi legge Calamandrei quel vincolo lo sente vibrare e ancora risuonare. Luzzatto aggiunge che sarebbe meglio saper parlare ai vivi piuttosto che attardarsi a coltivare la memoria dei morti; giusto, ma qui andrebbe fatta ancora una precisazione.

Proprio Luzzatto nel suo utile libro dell’altr’anno (La crisi dell’antifascismo, Einaudi) rammentava l’ambigua equiparazione, nell’attuale senso comune, di storia e memoria e ne concludeva, opportunamente, che può esserci una storia condivisa ma non una memoria condivisa, perché la memoria del carnefice (il nazifascista) non potrà mai essere quella sua vittima, a partire dal fatto che se la storia è la ricostruzione/interpretazione scientifica dei fatti, la memoria è invece una testimonianza soggettiva e perciò sovresposta alle variabili di spazio e di tempo. Ora, va da sé che il culto dei morti inerisce per lo più alle dinamiche della memoria, singolare e collettiva; ma perché allora diciamo che bisogna distinguere, che c’è culto dei morti e culto dei morti, perché sentiamo il bisogno di discriminare la necessaria retorica di Uomini e città della Resistenza dalla pessima retorica, ad esempio, delle Lettere da Fresnes di Robert Brasillach? Non è solo questione di qualità letteraria, è altro. Quando infatti pronunciamo la parola «memoria» (qui leggi sempre il culto dei morti) in realtà diciamo troppe cose insieme per non dover fare subito delle distinzioni. Questo almeno è l’insegnamento di un autore, Primo Levi, che negli stessi anni in cui Calamandrei metteva insieme Uomini e città aveva quasi rinunciato a cercare un vero editore per il suo libro su Auschwitz. In I sommersi e i salvati Levi inviterà infatti a distinguere tra memoria e ricordo che pure sembrerebbero sinonimi: la prima è materia plastica, così malleabile da essere deformata, così plasmabile da coincidere talora con la pura invenzione (il caso proverbiale è, ovviamente, l’opera di Proust); viceversa il ricordo ha consistenza minerale, sta confitto nel terreno in cui è caduto, può essere rimosso ma non deformato. Ne consegue che la memoria dà luogo volentieri al sollievo, spesso prepara l’alibi della nostalgia, mentre il ricordo procura per lo più sofferenza e suggerisce autocensura. Levi dice anche che la verità del ricordo sta proprio nella sua spaventosa parzialità. E’ per questo che gli emblemi scolpiti da Piero Calamandrei (la madre coraggio Genny, quei singoli esseri umani, quelle città) sono ricordi serbati per il presente, dove risuonano per parlare ai vivi, dei suoi tempi e dei nostri. Quanto alle lapidi, ce le immaginiamo pietra ruvida, certo non il gesso levigato delle maschere funerarie.