Entra male Calderon, esce peggio Fox

Annunciato come una cerimonia difficile, il passaggio dei poteri fra Vicente Fox e Felipe Calderón – presidente uscente e entrante dello stesso partito conservatore, il Pan – è durato solo tre minuti, la mattina di venerdì 1º dicembre. E ha rischiato addirittura di non avere luogo, viste le forti contestazioni della sinistra parlamentare, che continua a denunciare la vittoria fraudolenta di Calderón nelle elezioni del 2 luglio.
In effetti, invece di accogliere la richiesta popolare di un riconteggio voto por voto, che avrebbe dissipato i dubbi sull’esiguo vantaggio (0.56%) del candidato della destra, le autorità elettorali concessero la riapertura di un numero ridotto di urne. Quando quel campione mostrò una serie di gravi irregolarità, il Supremo tribunale elettorale decretò all’unanimità – e senza possibilità di appello – che c’erano state intromissioni indebite dell’esecutivo e delle organizzazioni imprenditoriali nella campagna, oltre che errori di computo nello spoglio, ma che questo non modificava il risultato. Sostenuto dall’appoggio di alcuni governi stranieri, fra cui Stati uniti, Spagna, Inghilterra e la stessa Unione europea, Felipe Calderón, ribatezzato «FeCal» dall’inventiva popolare, in settembre fu dichiarato ufficialmente «presidente eletto».
Ma gli artefici di quella «vittoria», in cui ebbero una parte significativa i consiglieri spagnoli e statunitensi, non avevano previsto una resistenza così fiera e duratura. Dopo un mese e mezzo di presidio permanente nel centro della capitale, il movimento a favore di Lopez Obrador, candidato di una coalizione di centro-sinistra e vero vincitore delle elezioni, si è strutturato in una Convenzione nazionale democratica e, il 20 novembre, ha nominato Amlo «presidente legittimo» per acclamazione, con tanto di programma e governo parallelo.
In un paese polarizzato dalla costosissima campagna della destra, che non ha esitato ad avvelenare la società pur di conservare il potere, le barricate si sono trasferite dalle piazze di Oaxaca, che continua in rivolta malgrado la repressione, al cuore delle istituzioni: l’emiciclo del Congresso è stato teatro, nei tre giorni precedenti alla cerimonia, di una vera e propria battaglia fra gruppi parlamentari per la conquista della tribuna. E fuori il palazzo di San Lazaro, sede della camera, schiere di poliziotti in assetto di guerra e barriere metalliche. Una bella festa d’investitura.
La fugace apparizione di Calderón, accompagnato dal presidente uscente Vicente Fox che gli ha consegnato la fascia tricolore, è avvenuta, venerdì mattina, in un clima di grande tensione, fra i fischi e gli slogan dell’opposizione di sinistra e con meno invitati del previsto. Solo il presidente colombiano Alvaro Uribe e tre presidenti centro-americani si sono presentati alla cerimonia. Gli altri capi di stato latino-americani hanno usato il pretesto di un vertice con i paesi africani per declinare l’invito. La Spagna, che attraverso il governo di Rodriguez Zapatero e il quotidiano El País intima a Lopez Obrador di smettere le proteste, ha inviato il principe ereditario Felipe di Borbone. E dagli Stati uniti sono arrivati, invece dell’attesa Condoleezza, Bush padre e il governator Schwarznegger.
Poche ore prima della cerimonia del giuramento, ha avuto luogo una specie di prova generale nella residenza presidenziale di Los Pinos. Trasmesso in diretta a mezzanotte a reti unificate, l’inconsueto rituale è stato l’ultima manipolazione di un governo che crede nel potere assoluto del teleschermo. Nel caso che in parlamento le cose non fossero andate come previsto, il passaggio dei poteri era comunque assicurato.
Nel chiuso della residenza di Los Pinos, fra schiere di cadetti dell’Accademia militare e in piena notte, il potere virtuale è diventato reale, grazie alle immagini teletrasmesse, e i ministri del governo uscente hanno passato la staffetta ai membri del nuovo governo.
Fra questi ultimi spiccano Agustín Carstens, ex-dirigente del Fondo monetario internazionale nominato ministro delle finanze, e Francisco Ramirez Acuña, il governatore dello stato di Jalisco che fece imprigionare e torturare decine di no-global, ha raccolto più di 600 denunce per violazioni dei diritti umani e oggi è ministro degli interni. Due scelte che non lasciano dubbi sugli orientamenti di Calderon, nonostante la sue ipocrite offerte di pace e di dialogo.
Il sessennio di Fox, che aveva suscitato ai suoi inizi grandi speranze, si chiude così con una crisi politica e sociale di dimensioni storiche. E lascia dietro di sé un’eredità disastrosa, come sottolinea un editoriale del quotidiano La Jornada. «Vicente Fox Quesada ha dilapidato un capitale politico che nessun presidente entrante aveva avuto, ha operato una distruzione sistematica delle istituzioni repubblicane, ha permesso la permanenza della corruzione amministrativa, ha patteggiato con i settori più torbidi del vecchio apparato del Pri, ha pervertito la propria investitura esercitandola in forma coniugale, ha dilapidato risorse pubbliche con una frivolità insultante, ha reso impossibile la collaborazione fra potere esecutivo e legislativo, ha sottomesso il potere giudiziario, ha liquidato la politica estera dello stato messicano, ha elevato la menzogna e la simulazione al rango di discorso ufficiale – la famosa Foxilandia -, ha amministrato la giustizia in maniera partitica e faziosa, si é sottomesso a volontà ai diktat della Casa bianca, è intervenuto senza alcun pudore nel processo elettorale di quest’anno e ha così tradito le speranze democratiche di milioni di messicani, portando il paese a una crisi politica allarmante e a una frattura sociale che si sarebbe potuta evitare. Come se non bastasse, nel tratto finale della sua amministrazione, ha utilizzato, in mancanza di abilità politica, le armi della repressione e della persecuzionecontro gli oppositori».
A questa lista di fallimenti vanno aggiunti lo smantellamento dei sistemi pubblici di salute e istruzione, l’emigrazione illegale in continuo aumento, il narcotraffico ormai imperante in intere regioni del territorio nazionale, l’erosione dei bassi redditi, la crescita di povertà e disoccupazione, la distruzione del tessuto sociale e il mancato riconoscimento dei popoli indigeni.
Ce n’è abbastanza per capire il malessere, la frustrazione e la volontà di resistenza di vasti strati della popolazione, che vedevano – e vedono – in Lopez Obrador la speranza di un cambiamento reale. E, anche se si accettassero i risultati elettorali ufficiali e si considerassero validi i 15 milioni di voti raccolti da Calderón, non va dimenticato che altri 25 milioni di elettori hanno espresso chiaramente il loro rifiuto alla continuità di un modello fallimentare e alla permanenza del Pan al potere.
Non c’è quindi da stupirsi se i seguaci di Lopez Obrador prometta un’opposizione senza tregua ed è facile pronosticare che Calderon non avrà vita facile.