Emergency chiede: liberate gli afghani

Al telefono, Gino Strada conclude la manifestazione di Emergency in Piazza Navona a Roma. «…E poi, ciascuno torni a fare il proprio lavoro….» Ma prima è necessario che Rahmatullah e Adjmal, il responsabile afghano della sicurezza di Emergency e l’interprete di Daniele Mastrogiacomo siano liberi e possano riabbracciare le famiglie. «Sono passati 11 giorni da quando abbiamo cominciato a richiedere, incessantemente, al governo italiano di attivarsi per una libertà immediata del nostro compagno di lavoro e del giornalista che accompagnava Mastrogiacomo. Ci hanno risposto che stavano facendo tutto il possibile, ma non ci fidiamo. Devono chiederlo ufficialmente al governo Karzai».
Nel suo brevissimo intervento di appena tre minuti, Strada ha ribadito altri due aspetti della vicenda. «Non abbiamo fatto niente di male». Le beghe della politica non fanno per noi, i rapporti servo-padrone o servo con servo non ci riguardano». Ma il rimprovero è appunto quello: considerare tutti i governi uguali, tutti artefici di guerra, non ammettere che una parte sia quella dei buoni. E il suo «non abbiamo fatto niente di male» indica una notevole preoccupazione per la sopravvivenza stessa di Emergency in Afghanistan.
La manifestazione di Piazza Navona si svolge con migliaia di persone presenti. Sono un significativo campione di quelle che si muovono per difendere anche i diritti degli altri, come ai tempi dell’articolo 18. Sono quelle che vanno in piazza per dire che ogni persona è una persona, con uguali diritti. Sotto uno striscione che ripete in italiano e in inglese la richiesta di liberare Rahmatullah Hanefi e Adjmal Naqeshbandi, si sono susseguiti brevi discorsi e molti messaggi, letti da David Riondino. Vari interventi erano centrati sulla persona di Rahmatullah. Vauro per primo ha spiegato che il suo grande amico Rahmatullah è il responsabile della sicurezza all’ospedale di Lashkar-gah. «Ma sicurezza in un senso diverso, sicurezza senza armi. In pratica una specie di mediatore culturale, con una modalità di azione costruita in anni di rispetto, ottenuto faticosamente. Gli ospedali, in Afghanistan sono luoghi di pace, gli unici di cui la gente si fida E quelli di Emergency sono gli unici ospedali pubblici esistenti. Rahmatullah ha svolto il compito di tramite: di qui i sequestratori e di là il governo italiano che gli aveva affidato il compito di trattare.
Marina Castellano lavorava come infermiera all’Emergency di Lashkar-gah, ai tempi del sequestro e delle liberazione di Gabriele Torsello. Racconta, commossa, di come si era impegnato per togliere Torsello dai guai, senza badare al fatto che l’intera sua larga famiglia, non solo i cinque figli e la moglie, dipendesse dal suo salario soltanto. «Rahmatullah (in realtà Marina si serve del soprannome del suo amico afghano) stai attento, lascia perdere….». E racconta la risposta: «se lascio stare, quest’uomo muore». E poi, quando Torsello ritorna, è felice e scherza su di noi con bonomia «adesso saranno contenti gli italiani…» E qui Marina invita a un applauso talmente forte che Rahmatullah o come si chiama, lo possa sentire, nella prigione di Karzai.
Poi parlano i nostri, gli «esperti in rapimenti» del manifesto. Gabriele Polo ricorda un passaggio della nostra storia recente, quando ci chiesero di scegliere tra i tagliagola e i bombardamenti sui civili. «Non si può scegliere, non si deve scegliere. Ci si deve muovere su un altro percorso, politico, che porti al ripudio della guerra. E’ una strada irta di difficoltà, ma è l’unica che porti alla pace. E’ la strada che Emergency, con i suoi tre ospedali che accolgono i feriti di guerra, “senza se e senza ma”, indica a tutti». Poi tocca a Giuliana Sgrena che parla del giornalismo in luoghi difficili. «Non si tratta di correre dietro agli scoop, ma di informare; e per informare, bisogna andare a vedere cosa avviene nei luoghi difficili. L’informazione che ci vogliono affibbiare, con le recenti decisioni Nato, è invece quella embedded, incapsulata nelle operazioni delle truppe. Per andare a vedere, per conoscere almeno un po’ ciò che si muove davvero, servono interpreti e autisti. Senza di loro, uno di noi, anche il più bravo, non arriva da nessuna parte. Sono una parte decisiva del nostro lavoro, dell’informazione in Occidente. Per questo bisogna che il nostro governo faccia pressioni su quello afghano perché nel caso del sequestro di Daniele, dopo l’uccisone dell’autista, non ci siano altre perdite umane».
Dal palco si dà il via ai palloni colorati che prendono il volo. I bambini, che sono stati a sentire, sono sicuri che uno almeno arriverà in Afghanistan.