Elezioni in Germania: Linkspartei e “questione comunista”

Ragionare con pacatezza del voto tedesco di domenica 18 settembre non è semplice. Troppi sono gli elementi che si intrecciano col dibattito politico generale italiano e con quello che attraversa la sinistra radicale in particolare; troppo forti le tentazioni di “tirare” l’analisi a partire dalle proprie convinzioni personali, trascurando elementi di contesto e peculiarità del sistema politico tedesco.
Se alle precedenti elezioni del 22 settembre 2002 la coalizione di governo rosso-verde, in crisi di consensi a seguito della partecipazione all’aggressione NATO contro la Repubblica Federale Jugoslava della primavera 1999 ed a causa di una politica economica e sociale moderata e sostanzialmente subalterna alle compatibilità del capitalismo globale, è riuscita ad imporsi sull’opposizione conservatrice e liberale (di misura ed inaspettatamente) solamente dopo essersi schierata con decisione contro i piani di “aggressione preventiva” all’Iraq da parte della coppia Bush-Blair, il ripetersi di un simile scenario alle elezioni anticipate del 18 settembre 2005 era davvero difficile da prevedere. Troppo grande il vantaggio accumulato dalle forze di destra; troppe le tensioni create a sinistra, soprattutto tra i sindacati, dalle riforme del mercato del lavoro e dello stato sociale approntate dal governo (Hartz IV ed Agenda 2010).
Quando, nel giugno 2004, si è costituito un nuovo soggetto politico, la WASG (Alternativa Elettorale per la Giustizia Sociale), guidata da Lafontaine (ex Ministro delle Finanze, cacciato nel marzo 1999 da Shroeder) ed in grado di raccogliere componenti importanti del movimento per la pace e del mondo del lavoro, i destini di Shroeder parevano segnati.
A Washington, forse, pregustavano già una vittoria della Merkel ed un conseguente riavvicinamento della Germania ad un atlantismo più ortodosso; a Londra un governo tedesco in grado di accelerare le riforme liberiste (come sancito nel programma elettorale di cristiano-democratici, cristiano-sociali e liberali) e di sostenere i disegni blairiani di una “nuova” UE, ligia ai voleri di Washington, in sostituzione della “vecchia” Europa, del nascente imperialismo europeo incardinato sull’asse franco-tedesco. La non vittoria delle forze conservatrici e la non sconfitta di Shroeder sono giunte come un fulmine a ciel sereno: la reazione della Casa Bianca si è tradotta in un gelido silenzio, mentre da Londra Blair ha preferito ragionare delle scandalose elezioni afgane, dimenticandosi dei tedeschi. Chi brinda è, con ogni probabilità, il presidente russo Putin, che a pochi giorni dal voto tedesco ha concluso con Shroeder un accordo per la costruzione di un gasdotto sotterraneo tra Vyborg e Greifswald, lunghezza 1200 chilometri, in grado di fornire 27,5 miliardi di metri cubi di gas annui a Germania ed Olanda (in prospettiva 55 miliardi), evitando il passaggio attraverso le Repubbliche Baltiche e la Polonia. Un chiaro segnale politico non solamente sul terreno della futura Europa, all’interno della quale alcuni paesi dell’Est (entrati a far parte dell’Unione dal maggio 2004) si sono schierati apertamente con l’asse Washington-Londra per contrastare l’intesa Parigi-Berlino-Mosca, ma, più in generale, sull’intero e sempre più complesso scacchiere della geopolitica del petrolio. “Un progetto molto geopolitico – ha commentato Caracciolo, direttore della rivista italiana di geopolitica Limes -: grazie alla futura pipeline la Germania dipenderà vitalmente dalle forniture energetiche russe, configurando un asse strategico di prima grandezza. Polacchi e baltici, scavalcati dal gasdotto, gridano alla “nuova Rapallo”. Gli americani prendono nota, in attesa di stabilire come sanzionare l’intesa russo-germanica, che rimette in questione il senso stesso del trionfo atlantico nella guerra fredda” .
Al termine di una dura campagna elettorale, la Spd di Shroeder ha ottenuto in rimonta il 34,3% dei consensi (-4,2 rispetto al 2002) e 222 seggi (-29). I Verdi, parte del governo uscente insieme ai socialdemocratici, sono rimasti in linea di galleggiamento: 8,1% (-0,5) e 51 seggi (-4). Dalla parte opposta l’alleanza CDU-CSU della cancelliere “in pectore” Merkel, favorevole ad accelerare le riforme del mercato del lavoro e dello stato sociale in senso liberista (a partire da un’unica aliquota fiscale, geniale proposta del ministro delle finanze “in pectore” Kirchhof in piena campagna elettorale), si è fermata ad un deludente 35,2% (-3,3) e 225 seggi (-23). Nonostante il sostegno indiretto del clero cattolico e dello stesso Benedetto XVI, la CSU ha perso qualcosa come dieci punti percentuali in Baviera, segnando la fine dell’arrogante e razzista Stoiber, già sfidante di Shroeder alle precedenti elezioni politiche. A poco è servito, ai fini del cambio di governo, il buon risultato ottenuto dai liberali (Fdp) del giovane Wasterwelle (7,4% – + 2,4 – e 61 seggi – + 14 -).
A sinistra della coalizione di governo uscente si è presentato la Linkspartei, erede diretto del Partito del Socialismo Democratico (Pds, ex Sed, al potere nella RDT fino al 1991), che, in alleanza con la WASG, ha raggiunto l’8,7% e conquistato 54 seggi, 3 dei quali in collegi uninominali (tutti a Berlino). Conclusione: per la prima volta dalla riunificazione un’organica rappresentanza politica collocabile a sinistra della Spd è entrata in forze nel Bundestag, elemento questo che costituisce la vera novità dell’attuale quadro politico tedesco (nel 2002 la Pds aveva ottenuto il 4,3% e soli 2 seggi uninominali, registrando un 6,1% e 7 eletti alle Europee dello scorso anno).
Se questi sono i numeri, la Germania deve inventare un governo, anche solo per portare il paese a nuove elezioni. Se questi sono i numeri, ancora, è vero che le elezioni hanno decretato la sconfitta di chi, a destra come a sinistra, ha teorizzato drastici ridimensionamenti dello stato sociale e dei diritti del lavoro in nome delle compatibilità del capitalismo globale. Con buona pace (e disperazione, in alcuni casi) dei grandi teorici del mercato globale e delle solo apparentemente asettiche “riforme” necessarie per il sistema, dei singoli paesi come a livello europeo . La colpa? Per molti opinionisti e politici nostrani le responsabilità andrebbero individuate nel sistema elettorale tedesco, non più in grado di garantire la governabilità ad ogni costo . Su questo occorre intendersi, perché la discussione è aperta anche in Italia, stante il fallimento ormai evidente del bipolarismo imperfetto ed artificiale introdotto con le riforme dei primi anni ’90 del secolo scorso. Se in Germania vi fosse stato il tanto agognato bipolarismo, probabilmente avrebbe vinto l’alleanza conservatrice (soprattutto se in grado di ammantare il programma liberista con un poco di sano populismo di destra), come reazione alla delusione del governo rosso-verde, ma molti elettori avrebbero deciso di non esercitare il loro diritto al voto. Il risultato elettorale in Germania testimonia, al contrario, la complessità dell’attuale fase politica a livello internazionale come europeo, la complessità dei processi in atto, le diverse spinte che animano le società dei paesi a capitalismo avanzato. Assai più difficile risulta, su questo terreno, individuare risposte, anche se sarebbe sbagliato, pericoloso ed inutile tentare di impedire l’emergere della contraddizione attraverso artifici tecnici e meccanismi elettorali, quali ipotetiche riforme del sistema tedesco in senso maggioritario. Ha ragione Castellina quando afferma: “L’instabilità che si è creata per l’assenza di una indicazione governativa certa, il voto l’ha solo registrata, non l’ha creata”. E prima: “Alla nostra destra piace infatti molto un sistema che come in Gran Bretagna e negli Stati Uniti consente di governare con proporzioni risibili: Blair con il venticinque per cento degli aventi diritto, Bush con qualche decimo in più. Con buona pace di quella stessa maggioranza che resta senza rappresentanza politica alcuna, mortificati od addirittura espulsi dal sistema democratico” .
La domanda è, a questo punto, brutale: siamo sicuri che questo modello piaccia solo “alla nostra destra” e non vi siano invece assai meno netti elementi di trasversalità (chi non ricorda il referendum per l’abolizione del recupero proporzionale e le pulsioni maggioritarie che ancora attraversano in forze il centro-sinistra italiano)?

Il successo della Linkspartei
Tra le forze politiche tedesche in grado di superare la soglia del 5% la Linkspartei, com’era prevedibile, si è caratterizzato per il maggiore scostamento tra est ed ovest. Nei territori della ex RDT la Pds-Linkspartei ha ottenuto il 25,4% (dal 17 precedente), piazzandosi davanti alla CDU ed a soli cinque punti percentuali dalla Spd. Le cifre sono da capogiro: secondo partito in Sassonia Anhalt (26,6%, +12,2), in Turingia (26,1%, +9,1) ed in Barndembrugo (26,6%, +9,3); al 23% (+6,9) in Sassonia, al 23,7% (+7,3) in Meclemburgo-Pomerania Occidentale ed al 16,4 (+5) a Berlino.
Ad ovest, l’alleanza elettorale Pds-WASG si è fermata al 4,9%, raggiungendo di fatto lo sbarramento ma soprattutto, elemento incoraggiante per il futuro, ottenendo risultati assai superiori alla media nelle roccaforti operaie e nei grandi centri urbani. A partire dal 18,5% (+17,1) della Saarland, terra di Lafontaine. L’alleanza ha superato la soglia del 5% anche nei lander di Brema (8,3%, +6), Amburgo (6,3%, + 4,2), Renania-Palatinato, Assia e Nord-Reno Vestfalia. Sotto la soglia, pur se in crescita, i risultati ottenuti in Bassa Sassonia (4,3%), Shleswig-Holstein (4,6%) e, soprattutto, Baden Württemberg (3,8%) e Baviera (3,4%).
Positivi anche i consensi ottenuti nella regione operaia della Ruhr (intorno al 6%), a Kaiseslautern (8,8%), Francoforte (tra il 6,5 ed il 7%), Essen, Bochum e Dortmund.
Questo risultato largamente positivo è stato favorito senza dubbio dall’atteggiamento dei sindacati tedeschi che, delusi dal pacchetto di riforme di Shroeder, per la prima volta non si sono espressi pubblicamente per il voto alla Spd. Al contrario, diversi quadri sindacali dei Ver.di e della IG Metall si sono candidati nelle liste della Linke.
Altro elemento interessante riguarda l’accordo elettorale che la Linkspartei ha concluso con il piccolo Partito Comunista Tedesco (DKP), forza politica collocata fino ad oggi ai margini del quadro politico tedesco. Candidati del DKP hanno partecipato alle elezioni in rappresentanza della Linke in tre collegi uninominali, mentre altri 11 sono stati inseriti in posizioni diverse nelle liste proporzionali.
Un’analisi disaggregata del voto, poi, favorisce l’emergere di un altro dato importante, in grado di fornire una chiave di lettura non secondaria del voto tedesco. In diversi territori la Linkspartei ha raccolto migliaia di voti socialdemocratici in libera uscita, voti che, in caso contrario, sarebbero andati dispersi od avrebbero finito per favorire l’astensionismo. Nella Saarland, ad esempio, la Spd ha perso il 12,6% rispetto al 2002, mentre la Linke ha guadagnato il 17,1%; in Assia la Spd è arretrata di quattro punti percentuali, recuperati in egual misura dalla sinistra radicale. Ad est, in Turingia, il partito del cancelliere uscente è arretrato di dieci punti percentuali, con la Linke che è avanzata di nove; dato non dissimile in Brandemburgo. Questo elenco, che potrebbe continuare, conferma che se la Germania ha votato in maggioranza a sinistra il merito è anche di chi ha contrastato la deriva moderata delle politiche di governo rosso-verdi. “Con il nostro impegno – ha affermato Gysi, dirigente storico ed esponente dell’ala moderata della Pds- abbiamo impedito che l’Unione e i liberali governassero il nostro paese”. Chi accusa, al contrario, la Linke di aver favorito la vittoria parziale dei conservatori ed aver indebolito la sinistra tedesca, senza peraltro spendere una parola sull’involuzione del governo rosso-verde, si colloca in una logica strumentale, tutta interna ad uno schema, prima ancora mentale e teorico che politico, legato ad un bipolarismo di comodo, attraverso il quale tentare di rimuovere ed annullare l’analisi delle contraddizioni che stanno emergendo all’interno dei paesi europei a capitalismo avanzato .

Un “modello” per tutti?
Quando, domenica 17 luglio 2005, 311 delegati hanno deciso (con soli 20 contrari ed 1 astenuto) di modificare il nome del Partito del Socialismo Democratico in “Die Linkspartei” (Partito della Sinistra), si sono create nell’immediato le condizioni per un’alleanza elettorale con la WASG di Lafontaine e, in futuro, le potenzialità per la costituzione di un nuovo soggetto politico di sinistra in Germania, prospettiva che, a fronte del buon risultato elettorale conseguito, potrebbe anche subire un’accelerazione. Un nuovo soggetto politico in grado di contendere alla Spd ufficiale, spostatasi sempre più al centro, l’egemonia all’interno della sinistra di ispirazione socialdemocratica. Se, oggi, la Linkspartei rifiuta con decisione qualsivoglia ipotesi di coinvolgimento all’interno di una coalizione di governo, elemento che da una parte aprirebbe forti contraddizioni in una struttura ancora fragile ed impegnata in un percorso ancora largamente aperto e, dall’altra, impedirebbe all’alleanza di capitalizzare lo scontento determinato da ipotetiche “grandi coalizioni” o “governi colorati”, questo non significa non avere l’ambizione di candidarsi in futuro a guidare il governo del paese.
Ciò che non può non apparire in tutta la sua evidenza, se consideriamo l’aspetto strategico ed ideologico, è il segno moderato alla base dell’intero processo che ha portato la Pds a tramutarsi nel Linkspartei, ad abbandonare ogni riferimento al “socialismo” (e con esso al superamento della sistema capitalistico) come prospettiva strategica, approdando ai lidi di un pensiero riformista (socialdemocratico), seppure di sinistra. Logica, questa, che ha pervaso anche la recente costituzione del Partito della Sinistra Europea, con protagonisti alcuni partiti del GUE-NGL, a partire da una impostazione tutta interna all’UE come solo modello possibile di Europa futura e da una piattaforma collocabile nell’ambito delle elaborazioni e delle pratiche di una socialdemocrazia di sinistra. Non a caso, ragionando della Linkspartei, si utilizzano definizioni quali “rifondazione di un’alternativa di sinistra” (Ambrosino) e “Rifondazione socialdemocratica” (Cadalanu). Ragionando della “metamorfosi” tra Pds e Linkspartei, lo stesso Cadalanu afferma che essa “avviene proprio per liberarsi del peccato originale, la discendenza dalla “Repubblica operaia e contadina”, un marchio da “costruttori del Muro” che ha sempre impedito al partito madre di riottenere credito ad Ovest” . Tutto questo non per gettare discredito sull’operazione compiuta, ma per collocare ciascun pezzo al proprio posto ed evitare fraintendimenti, dal momento che proprio su questo passaggio si è acceso nella sinistra di alternativa e comunista italiana un dibattito troppo presto interrotto. In diversi considerano quanto avvenuto in Germania una sorta di “modello” esportabile anche alla frustrante realtà italiana, una sorta di necessaria boccata d’ossigeno in un quadro complessivo sempre più asfittico. Forse non a torto. Qualcuno, ancora, vagheggia una statica ricomposizione delle fratture determinate nella sinistra dalla Rivoluzione d’Ottobre e la conseguente costituzione di un “partito unico della classe operaia”. Al di là del fatto che la storia ci insegna che di modelli e di elaborazioni astratte si può vivere ma anche morire (il più recente ricordo corre ad Izquierda Unida, per anni ritenuta “modello” ed oggi in profonda crisi, con gli aulici e pomposi vati di allora – in parte gli stessi che oggi sposano il modello Linke – neppure in grado di ragionare sulle cause dell’arretramento), occorre chiarire bene che una “Die Linke” nostrana è destinata a cancellare la presenza autonoma ed organizzata dei comunisti nel quadro politico italiano . Per chi continua a considerarsi comunista questo costituisce il cuore del problema, il centro del ragionamento e della prospettiva, da affrontare però senza elementi di staticità e liturgia, senza lezioni astratte ed ideologiche. Senza dogmi, come nella migliore tradizione del materialismo storico. A partire dall’assunto più scontato: l’Italia non è la Germania. Non solamente per il diverso sistema elettorale (in Germania il voto è meno vincolato da rigidità bipolari), non solamente per la diversa reazione determinata dallo spostamento al centro della socialdemocrazia ufficiale (calo di iscritti e consensi, abbandono di dirigenti e quadri intermedi, crescita di una opposizione di sinistra in Germania – assai diverso il quadro in Italia), non solamente per la giusta aspirazione della Pds a divenire sempre più un partito “nazionale” e non confinato oltre l’Elba. C’è qualcosa di più e di diverso, e riguarda la diversa storia del movimento operaio e comunista in Italia e nella Germania Occidentale, che è divenuta il modello della Germania unificata dopo il 1991. Se in Italia i comunisti, dalla “svolta” degli anni ’30 agli anni ’80, pur con tanti limiti hanno contribuito in maniera determinante alla cacciata del nazifascismo ed alla costruzione di un paese democratico, hanno guidato in larga misura l’ingresso delle masse in politica e sono divenuti anche per questo un grande partito, nella RFT i comunisti sono stati ridotti di fatto alla clandestinità, elemento che contribuisce a spiegarne in larga parte dispersione e debolezze attuali.
In Italia, ancora oggi, un partito comunista aperto ed autonomo, la “falce e martello” se volessimo ragionare per immagini, avrebbe a disposizione un bacino potenziale di consensi intorno al 10%, situazione che in Germania, semplicemente, non esiste. Da qui dovrebbe partire, forse, una riflessione sulle prospettive della sinistra comunista e di alternativa in Italia.
Una volta detto questo, però, occorre precisare che nemmeno l’autonomia dei comunisti è un dogma e deve tradursi, se vuole avere prospettiva strategica, dalla potenza all’atto. Senza voler approfondire (non sarebbe questa la sede opportuna), la storia ci insegna che le potenzialità oggettive non si traducono in atto se manca l’elemento soggettivo, nel nostro caso un soggetto politico all’altezza, un progetto all’altezza. Se i comunisti non legittimano la loro presenza e la loro autonomia nella società (in Italia come in Europa), ponendosi alla testa delle lotte più avanzate, organizzando una classe operaia sempre più frammentata e multietnica, dando voce anche al crescente malcontento delle classi medie, la loro autonomia è “oggettivamente” a rischio. Da una parte l’elaborazione teorica sull’attualità e le prospettive del socialismo nel XXI° secolo, dall’altra la mobilitazione delle masse su obiettivi concreti e contingenti. Il periodo di più forte consolidamento del PCI si è determinato nel momento in cui alla prospettiva rivoluzionaria si è affiancato un lavoro di massa, in grado di mobilitare i lavoratori e le classi subalterne su obiettivi precisi, immediati e straordinariamente concreti Argomento, questo, che richiederebbe specifici momenti di analisi ed approfondimento (e che in questa sede è utile solamente accennare).
Un lavoro lungo e difficile ma fondamentale, senza scorciatoie possibili. In assenza del quale, però, è la storia che ti condanna alla residualità.