Elezioni: anche l’Ecuador gira a sinistra?

Potrebbe risolversi già al primo turno di domani 15 ottobre l’appuntamento elettorale in Ecuador, confermando l’ondata progressista che ormai da qualche anno sta sconvolgendo l’America latina in chiave anti-Usa.
I sondaggi attribuiscono infatti a Rafael Correa, candidato della lista di sinistra Alianza Pais, fra il 34 e il 37% dei favori, a un passo dunque da quel 40% che, secondo la legge elettorale di quel paese, gli permetterebbe di evitare il ballottaggio fissato per il 26 novembre. La distanza dal secondo, Leon Roldos (dato al 22%), sarebbe poi superiore al 10% minimo di scarto necessario per chiudere la partita. E poiché Correa è cresciuto a vista d’occhio proprio nelle ultime settimane, non è escluso che ce la possa davvero fare fin da domani.
L’altro elemento stupefacente della vigilia elettorale ecuadoriana è che Leon Roldos è anch’egli un contendente progressista, candidato di Red etica y democracia, un nuovo partito che si è alleato con la antica Izquierda democratica. Un ballottaggio vedrebbe dunque, salvo sorprese, misurarsi due candidati di sinistra.
Solamente al terzo e quarto posto vengono dati gli antagonisti di destra: il miliardario bananero Alvaro Noboa, al 21% con il Partido renovador institucional de accion nacional (alleato alla Sociedad Patriotica del deposto presidente Lucio Gutierrez, portato al potere nel voto del novembre 2002 da una coalizione di organismi indigenti e di sinistra…), e la signora Cinthya Viteri (al 18%) per il tradizionale Partido social cristiano.
Ma le sole cifre non debbono trarre in inganno. Dopo il «tradimento» dell’ex colonnello Gutierrez, eletto e due anni dopo cacciato da una rivolta popolare, l’universo della sinistra ecuadoriana si è frammentato a dismisura. Luis Macà, per esempio, candidato e leader del partito indigeno Pachakutik, è dato appena al 4% nei rilevamenti, quando è almeno un quarto la popolazione indigena dell’Ecuador.
Non solo: quello di Rafael Correa (brillante intellettuale bianco cui viene attribuita una buona amicizia col venezuelano Chavez) non è un vero partito politico bensì una lista personale che ha mobilitato l’opinione pubblica all’insegna della «lotta al corrotto sistema dei partiti» e del «recupero dei beni pubblici e delle risorse naturali del paese», ovvero la de-privatizzazione di acqua, telefoni ed energia (vedi petrolio). Per questo Correa ha deciso, sorprendentemente, di non presentare candidati deputati in parlamento per Alianza Pais. Il problema è che in questo affanno sacrosanto quanto insidioso di anti-partitismo, gran parte degli elettori diserterà il voto per il Congresso, col risultato prevedibile che le destre continueranno a controllarlo ampiamente, e di conseguenza potranno paralizzare l’azione del possibile governo progressista. A partire dall’assemblea costituente che Correa, sull’onda di Evo Morales in Bolivia, intende lanciare come primo atto della sua futura presidenza. Non è un caso che il Congresso uscente stia deliberando in questi giorni una legge, diciamo così federalista, che esaspererebbe la storica dicotomia fra la capitale Quito (amministrata da Izquierda democratica) nella sierra, e la seconda città del paese, la ricca e produttiva Guayaquil (controllata dalla destra) sulla costa del Pacifico. Il risultato sarebbe una seria limitazione delle prerogative del governo nazionale entrante.
Certo è paradossale che la sinistra e il movimento popolare organizzato ecuadoriani, che sono riusciti a fermare con le proprie battaglie di piazza la firma del trattato di libero commercio con gli Stati uniti, giungano oggi al tanto atteso appuntamento elettorale forti sulla carta ma fragili e dispersi nella sostanza. Per alcuni versi sarebbe forse meglio che Correa non si affermasse subito al primo turno, per indurlo a discutere e profilare una vera e propria alleanza delle sinistre in vista del ballottaggio, attenuando così il personalismo eccessivo della sua candidatura.