Egitto, dal carcere l’attivista Sharqawi: non lasciateci soli a lottare per la democrazia

«E’ stato uno dei momenti in cui ho avuto più paura in tutta la mia vita. Credo sia diritto degli uomini poter avere paura, ma quel sentimento di terrore è ancora con me, non mi abbandona più, sono disperato, vi prego aiutatemi». E’ commovente il messaggio che Mohammed el Sharqawi a soli 24 anni uno dei leader più esposti del movimento di opposizione politica egiziano Kifaya (basta in arabo), lancia dal carcere del paese del raìs dove è rinchiuso da ormai più di un mese e da dove pare non riesca più ad uscire. Sharqawi è solo, come pare ormai sempre più sola la lotta degli attivisti egiziani che si battono con la loro vita per avere un paese democratico. E’ solo abbandonato dai media internazionali che paiono stanchi di raccontare lotte apparentemente prive di una fine.
Le autorità di sicurezza hanno confermato l’arresto di Sharqawi per altri quindici giorni. Proprio quando hanno deciso di liberare alcuni dei suoi compagni di lotta, tutti arrestati durante una delle diverse manifestazioni che negli ultimi due mesi sono state organizzate al Cairo per sostenere l’indipendenza della magistratura. Sharqawi è in una cella di isolamento ora, solo con problemi di salute legati alle torture che ha subito e alla sodomizzazione a cui è stato sottoposto nell’ufficio di polizia di Qasr el Nile, nella zona centrale della capitale egiziana. Era stato arrestato all’inizio del mese di maggio durante una protesta di strada, era stato poi liberato ma dopo due giorni rapito nuovamente. Questa volta non già durante una manifestazione, ma nelle ore immediatamente successive a essa, ben lontano dalle telecamere e dai riflettori che seppur per qualche istante gli attivisti egiziani sono stati in grado di attirare. Sharqawi stava entrando nella macchina di un amico quando tre uomini in borghese lo hanno bloccato, gettato nel landrone di un palazzo vicino e picchiato a sangue.

«Picchiavano, picchiavano in ogni direzione, non avevo modo di difendermi, ho avuto paura di morire. Non si fermavano e continuavano a gridare insulti. “Perché diavolo sei tornato a manifestare figlio di puttana? ” urlavano – ricorda il giovane in una lettera consegnata ai suoi avvocati dal carcere qualche ora dopo gli eventi. – In quel momento mi sono domandato perché non ero andato a trovare mia mamma nelle ore di libertà che avevo avuto. Sapevo che rischiavo di non vederla mai più. I pensieri scorrevano veloci. Mi hanno incappucciato e portato da qualche parte, non so bene dove. Lì le cose sono cambiate, ma solo perché si sentiva che gli uomini picchiavano in maniera più professionale. Sentivo il sangue scendere dal naso rotto. Rotto credo fosse anche un braccio. Lì è stata l’umiliazione più dura: un uomo mi ha gridato di slacciarmi i pantaloni. Io ho obbedito. Un’altra voce mi ha urlato di chinarmi in avanti. Non volevo, ma mi hanno forzato e qualcuno, quella voce roca che sentivo, ha messo qualcosa nel mio ano, e hanno continuato a picchiare. Non sono sicuro di non aver urlato o pianto, abbiamo il diritto di avere paura, non credete? Poi non ricordo molto. Devo essere svenuto. Ricordo che dopo un po’ mi sono trovato davanti ad un ufficiale che mi ha detto “va bene, allora ora possiamo iniziare l’interrogatorio. Ma chi ti ha ridotto così? ”. Solo molto dopo ho potuto vedere facce amiche, come quella di Gamal, il mio avvocato. Ho visto il terrore anche nei suoi occhi».

A un mese da quegli eventi, Eid Gamal, responsabile del network arabo per i diritti umani, una delle più grandi organizzazione per il rispetto dei diritti umani in tutta la regione, non nasconde la sua preoccupazione: «Ho paura per Mohammed – spiega a Liberazione – i suoi nervi stanno cedendo. Ora che resterà completamente solo in cella ha paura del peggio. Non siamo ancora riusciti a convincere le autorità a farlo visitare in ospedale. Le conseguenze fisiche delle torture che ha subito sono veramente preoccupanti. La cosa più assurda è che nonostante noi stessi abbiamo constatato le torture, il ministero degli interni nega che nulla sia avvenuto. Nessuna inchiesta è stata aperta, né probabilmente lo sarà. Ma perché siamo sempre soli a combattere per i diritti?».

In effetti la vicenda di Sharqawi, seppure drammatica, non è certo isolata in Egitto. Eppure Sharqawi non ha fatto e fa altro che lottare per dei diritti, e negli ultimi mesi non ha fatto altro che sostenere i giudici nella loro battaglia per l’indipendenza. Le telecamere internazionali sono sempre pronte a filmare gli orrori delle bombe terroriste come quella scoppiata alla fine di aprile a Dahab nel Sinai, i cronisti sono sempre solerti nelle analisi politiche del momento per attribuire colpe e responsabilità, ma quando si tratta di comprendere le vicende quotidiane il silenzio è quasi d’obbligo. D’altronde ormai la democrazia in medio oriente si deve esportare, preferibilmente con i carri armati. Eppure in Egitto si sta giocando una partita importante, che non solo si svolge per le strade, ma nelle aule dei tribunali. E’ quella dell’indipendenza della magistratura dal potere del raìs, un passo determinante per una nazione che vuole affacciarsi alla democrazia, o a qualsiasi forma di organizzazione politica che si confaccia alla realtà locale, ma che possa assicurare libertà e diritti. Oggi in programma l’ennesima assemblea generale dei giudici riformisti. Decideranno se entrare in sciopero permanente da subito. Perché, come sostiene Mohammed Mekki, leader dei togati in lotta «oramai abbiamo iniziato e non torneremo mai più indietro».