Spentosi lunedì 18 maggio a Genova, Edoardo Sanguineti è stato senz’ombra di dubbio uno dei più prestigiosi intellettuali italiani degli ultimi 50 anni. Assieme ad altre personalità di spicco quali Umberto Eco, Angelo Guglielmi e Luciano Anceschi, Sanguineti rappresentava la corrente più radicale in senso marxista della neoavanguardia, altrimenti conosciuta come Gruppo ’63. La vastità del suo campo d’interessi, unita ad una personalità sensibile non meno che tenace, hanno fatto di lui una figura poliedrica, capace di produrre elaborazioni scritte che spaziassero dalla poesia (Opus metricum, Catamerone, Postkarten, Mikrokosmos ecc.) al romanzo in prosa (Capriccio italiano), alla saggistica letteraria (Ideologia e linguaggio, Il realismo di Dante, La missione del critico, Dante reazionario ecc.) fino alla traduzione di classici (Le Baccanti, Il Satyricon, I sette contro Tebe, La tragedia di re Lear ecc.) e alla librettistica. La sua passione artistica si fondeva in un’unità organica con la passione politica, la quale, nel 1979, lo condusse ad essere eletto deputato al Parlamento italiano come indipendente tra le fila del Partito comunista. Tuttavia, contrariamente a quanto è avvenuto per la maggior parte degli intellettuali, in lui la cesura storica del 1989-’91 non implicò un rinnegamento assoluto delle istanze ideologiche precedenti. Nella convinzione che, in ultima analisi, «tutto è ideologico», che «ci esprimiamo secondo codici circostanziati» e pertanto «tutto quello che facciamo ha sempre un significato di implicazione sociale, sia quando parlo di massimi sistemi di filosofia sia quando dico buongiorno» (Sanguineti vero&falso, intervista a Edoardo Sanguineti su La Repubblica del 07/04/2006), il critico genovese ha, fino all’ultimo, ritenuto invariata la funzione etico-politica dell’intellettuale: «Ma quando mi domandano: “che cosa pensi di fare come intellettuale? Che cosa pensi, in ogni caso che debbano fare gli intellettuali?”, la mia risposta è: Quello che hanno fatto sempre, se hanno svolto il loro ruolo. E cioè di collaborare a diffondere o consolidare, per quel tanto pochissimo di cui sono capaci, la coscienza di classe. Non è cambiato niente. Il compito rimane lo stesso. Se il compito è oggi particolarmente difficile è perché il proletariato esce da una sconfitta planetaria, ha perso totalmente la coscienza di sé, e ci troviamo di fronte, nel migliore dei casi, a qualche residuo di ordine socialdemocratico» (Edoardo Sanguineti, Come si diventa materialisti storici?, Manni editore 2006, pp. 24-25). La constatazione della rarità con cui queste parole vengono udite nell’ambito dell’attuale orizzonte culturale preminentemente occupato da una tipologia di critico-acritico involto in un arida attività tecnicistica, basterebbe a far comprendere di per sé la dimensione della ferita lasciata dalla sua scomparsa.