Il re è ormai nudo. Nessuna parola riesce credibilmente a coprire la realtà drammatica di una guerra – fortissimamente voluta dall’establishment statunitense – che in Iraq ha sinora causato tra le 10 e le 15 mila vittime civili. La rivolta è divampata in tutto il paese e ad essa le truppe di occupazione reagiscono con ferocia: solo a Falluja si sono contati 750 morti iracheni, tra i quali oltre cento bambini e centocinquanta donne, molte delle quali freddate dalle pallottole di militari cecchini. E’ stato detto: processo di pace e ricostruzione materiale e civile del paese. I fatti parlano di tutt’altro: non un ospedale, non un edificio è stato ricostruito; al contrario, ospedali ed edifici non cessano di essere devastati in questo cosiddetto “dopoguerra”. L’Iraq si avvicina alla fatidica data del 30 di giugno in una condizione del tutto opposta a quella di un paese pacificato. I 200 mila stranieri che calcano il suolo iracheno non sono ingegneri, architetti o operatori sociali, ma soldati occupanti; e come tali sono visti non semplicemente dai resistenti in armi ma dalla totalità della popolazione. Questa è la semplice e cruda verità che il ministro Martino rimuove quando insiste imperterrito a parlare di missione di peace-keeping e di imboscate organizzate da minoranze di terroristi.
La verità è che i soldati italiani sono mandati a rischiare la vita nel vivo di conclamate operazioni belliche, a seguito di un’aggressione giustificata con vergognose menzogne e, viceversa, motivata da inconfessabili mire di espansionismo economico e militare (del tutto plausibilmente denominabili imperialiste): un’aggressione che, nel quadro della strategia delle cosiddette “guerre preventive”, propone ancora una volta al centro degli interessi statunitensi il controllo delle risorse energetiche e la presenza militare Usa in una zona nevralgica dal punto di vista geopolitico. Quel che è peggio è che tale escalation mette a ferro e fuoco l’intero Medio Oriente, ben al di là dei confini iracheni: a cominciare dalla martoriata Palestina, dove Sharon – legittimato dal suo potente alleato – cinicamente chiude una ad una le già strette porte di un’accettabile soluzione negoziata, per proseguire nell’azione criminale di una definitiva quanto illusoria resa dei conti. Non c’è evidentemente di che stupirsi se, davanti agli orrori dell’aggressione bellica – di cui la tortura è da sempre stata corollario, anche se per lo più censurato – cresce in misura esponenziale il risentimento delle masse arabe.
Nonostante ciò, il governo italiano si adegua all’imperativo ‘Indietro non si torna’, confermando la sua servile acquiescenza all’alleato statunitense e confidando nella distribuzione di qualche briciola al tavolo del business di guerra. Questa è la sciagurata intesa che sostanzia il significato politico della visita di Bush in Italia il prossimo 4 di giugno: nell’attuale contesto, essa rappresenta un vero e proprio oltraggio alla memoria della lotta di liberazione dal nazifascismo e ai valori della Resistenza (di cui l’articolo 11 della nostra Costituzione è parte essenziale). In una congiuntura così pericolosa per i destini dell’intera umanità, obiettivo prioritario dovrebbe essere innanzitutto quello di distinguere le responsabilità e, nel contempo, operare per l’inversione di una tendenza che non è affatto ineluttabile: si tratta di attitudini che non possono di certo appartenere al governo delle destre. Tocca quindi alle sinistre e al movimento di massa il compito di esercitare con ogni mezzo democratico la più forte pressione perché, se non il nostro governo, almeno l’Europa si faccia interprete di una chiara e inequivoca volontà di pace, la stessa che ha espresso sin qui e che continua ad esprimere la stragrande maggioranza della sua opinione pubblica.
Esattamente ventidue anni fa, 5 giugno 1982, Ronald Reagan fu accolto a Roma da centinaia di migliaia di manifestanti, convocati dal Coordinamento nazionale dei comitati per la pace, i quali fecero sentire all’indesiderato ospite la voce dell’opposizione, esprimendo tutta la contrarietà del nostro paese alla corsa agli armamenti e all’installazione a Comiso di missili dotati di testata nucleare. Oggi come ieri è necessario che il popolo della pace torni in piazza a ricevere, con una grande e unitaria manifestazione e con la determinazione di chi sa di essere nel giusto, il principale artefice dell’attuale barbarie. Anche il prossimo 4 giugno le strade della capitale dovranno riempirsi di gente che manifesti democraticamente il proprio rigetto della guerra e dica a gran voce che George W. Bush non è affatto gradito.