Se a qualcuno interessa, c’è un piccolo dibattito in giro. Sull’ultimo Venerdì Emanuele Coen scrive un articolo in cui fa la scoperta (!) che dai blog letterari si può spesso arrivare alla grande e media editoria. Il giorno dopo su www. nazione indiana. com (citato da Coen) Giulio Mozzi si chiede: «perché Roberto Saviano, Marco Rovelli o Andrea Bajani non scrivono sui giornali? Se questi ragazzi hanno così tanto talento perché per anni e anni hanno dovuto ridursi a pubblicare i loro testi in rete? Non l’avranno compiuta, questa scelta, semplicemente perché i giornali e i settimanali sembravano (risultavano) loro inabitabili?». A giro di boa risponde Marco Belpoliti su La Stampa, dichiarandosi d’accordo con Mozzi ma rintracciando anche una debolezza costituzionale. «Il fatto è che – afferma -, salvo polemichette di nicchia, i giovani e meno giovani scrittori italiani non sembrano avere molto da dire sull’Italia contemporanea».
Chiacchiere estive? Non del tutto. L’articolo di Giulio Mozzi è significativo per come smonta la fallacia argomentativa di uno dei modi tipici del giornalismo culturale italiano: parlo di te, ti faccio conoscere, la tua bella faccetta nella foto che ho fatto realizzare apposta dall’agenzia pagata da me giornale, il tuo ufficio stampa mi ringrazierà. Il tuo portato culturale, qualunque sia, viene reso oggetto di merce per vendere il giornale (la sua pubblicità), ora che è depurato di qualsiasi sua capacità critica. Questa settimana si è parlato di te, la prossima di un altro: non c’è gerarchia, non c’è dialettica, e soprattutto nulla è capace di cambiare lo schema ideologico del luogo dove tutto questo avviene. La letteratura viene risucchiata dai meccanismi editoriali e l’editoria a sua volta plasmata secondo i modelli del consumismo culturale.
Ma questo meccanismo può diventare endemico. Ecco un caso da manuale: mi è ricapitato tra i libri che avevo in casa Chiedilo agli angeli – i libri e la vita di J. T. Leroy di Valentina Pigmei, (Arcana, 2003). E’ un volumetto con un intento promozionale esplicito, ma è al tempo stesso un prodotto molto onesto: un libro curato, con un nucleo di interesse fortissimo proprio nell’ambito del mondo del consumismo culturale. Chi è JT? Come è possibile che un ragazzino dal volto angelico e dai modi liminali all’autismo riesca in maniera così intensa a raccontare esperienze di violenza pura di cui è stato vittima? JT è stato per qualche anno l’ipostasi dell’autenticità. Come Rimbaud o Sarah Kane. Per i suoi amici scrittori mentori come Dennis Cooper o Dave Eggers, per i suoi editor, traduttori, lettori, JT era uno strano monstrum di sincerità, la dimostrazione che in un mondo culturale dove molto è costruito e indotto dalle regole di mercato, un ragazzino di diciott’anni, ingenuo e genialoide, possa trovare lo spazio e le attenzioni che merita: un puro. La realtà è che JT Leroy non esisteva: i libri li scriveva un’abile quarantenne e per le foto si prestava una ragazzetta ventenne vestita da uomo e sempre abbigliata con un parrucca bionda e occhiali da sole. La truffa l’ha scoperta il New York Times l’anno scorso, e il libro di Valentina Pigmei fa un effetto strano. Perché appunto è un libro onesto. Ma la morale della vicenda è veramente lapalissiana, proprio per come mette a nudo i meccanismi perfetti della confezione editoriale: introiettati addirittura a livello inconscio. Il marito di Laura Albert, la (ghost) writer, anche lui complice della truffa, sosteneva che lei veramente si sentiva, era JT.
Ho parlato di questo caso perché mi sembra che JT sia l’esempio più cristallino di come l’industria culturale abbia trovato il suo funzionamento compiuto: con la sua mitologia post-romantica, JT funziona come uno scrittore sintomatico. Uno scrittore che esprime quello che gli è capitato addosso, sulla sua pelle, che incarna la sua scrittura. Di questa folla di scrittori sintomatici, scrittori che “esprimono”, ne son piene le librerie, questa è la verità. Il mercato editoriale richiede uno scrittore ventiduenne alle prese con i traumi di un mondo del lavoro allo sbando? Eccone uno pronto all’uso. Un’adolescente sessualmente inquieta? Arriva. Una vittima del precariato sentimentale? Et voilà. Al secondo o terzo libro, a forza di essere onesti, questi scrittori ovviamente segnano il passo. E dispiace sinceramente. Le capacità di analisi, di critica, d’invenzione, quello che insomma costituisce nel tempo l’identità di un autore, il suo stile, è un surplus non necessario, anzi molto spesso ingombrante. Così l’articolo di Belpoliti contiene una porzione di verità. Non è vero che gli scrittori italiani non sanno parlare del mondo, ma è vero che il mercato editoriale privilegia gli scrittori sintomatici perché sono perfettamente assimilabili a un’ideologia di Sistema. Degli scrittori giovani si presume che siano narcisi interessati a vedere la propria foto sul Venerdì in posa da pensatore o la loro firma in calce a un pezzo sull’I-pod. L’abilità allora sta molto spesso nel sabotare o nell’evitare. Rimanere fedeli a un se stessi che ancora non si è, e che non si ha la possibilità di diventare rimanendo bloccati nella mancanza di riconoscimento.