Economia Usa a rischio immobiliare

Crollo, improvviso, negli Stati uniti dell’Accredited Home Lenders Holding – uno dei colossi dei mutui subprime (queeli ad alto rischio d’insolvenza) – che ha dovuto sottoscrivere un accordo per cedere ben 2,7 miliardi di dollari che risultavano «in sofferenza», con l’obiettivo di mantenere sia una certa liquidità sia di rilanciare il titolo. Ed ha avuto ragione, il titolo è salito del 27%. Il crollo di questa holding è stato notevole e potrebbere adirittura non essere l’unico: il settore immobiliare statunitense finora si era retto finora su queste società di subprime che hanno mosso un giro d’affari pari ad 8 mila miliardi di dollari; ovvero quasi il 23% dell’intero movimento capitali del settore dei mutui immobiliari.
Alan Greenspan – l’ex-presidente della Federal Reserve – aveva avuto pienamente ragione a denunciare la bolla speculativa immobiliare statunitense(l’ultima sua denuncia risale appena a giovedì scorso). Ha sbagliato soltanto nella previsione, più «minimalista», che il mercato avrebbe potuto riassorbire le sofferenze provocate dai comportamenti di queste società ad alto rischio. Che vanno incontro ad alcune esigenze di taluni investitori statunitensi. In realtà, tutto il settore immobiliare Usa è ora entrato in crisi – con flessioni che sfiorano anche un calo del 16% – con più evidenti e meno evitabili ricadute sulla crescita dell’intera economia. Alla fine del 2006, nel quarto trimestre, il prodotto interno lordo (pil) è cresciuto solo del 2,5%.
Non è un caso che ieri il dollaro abbia avuto un brusco rallentamento, venendo scambiato a 1,33 euro, dopo aver toccato quota 1,34, e lo yen è stato valutato sopra 116,7, proprio per questi timori legati ad una prossima crisi Usa. Le ultime impressioni vedono il paese sprofondare realmente nella recessione, mentre perde quota l’idea che si possa verificare una decrescita con «atterraggio morbido».
Questo sarebbe in effetti l’auspicio del nuovo capo della Federal Reserve, Ben Bernanke. Il comitato monetario della Fed si deve riunire martedì e mercoledì prossimi per decidere se ritoccare o meno il costo del denaro, fermo da qualche mese al 5,25%. La Fed si trova di fronte ad un grande dilemma: operare per favorire la crescita o continuare a controllare la politica monetaria e, quindi, l’inflazione? I dati pubblicati, sempre ieri, non l’aiutano a a prendere una decisione senza rischi: i prezzi al consumo sono cresciuti più delle attese, attestandosi in febbraio a +0,4%. Su base annua vuol dire che l’inflazione è già pari al 2,4%. L’incremento di febbraio non ha risparmiato nessun settore rilevante come, ad esempio, il comparto energetico – dove l’aumento è stato dello 0,9%, dopo una flessione dell’1,5% registrata a gennaio. I costi del gas sono saliti del 5,0% e, nel comparto alimentare, la frutta ha segnato un rialzo pari al 5,7%. L’indice del Michigan, che misura la fiducia dei consumatori americani, è sceso a quota 88,8 punti, contro i 91,3 registrati a febbraio.
Leggermente migliore è stato l’andamento della produzione industriale, che è salita dell’1% in febbraio; contemporaneamente la capacità di utilizzo degli impianti ha segnato un miglioramento, toccando il valore massimo rispetto agli ultimi cinque mesi: 82% contro l’81,4% registrato a gennaio. Giovedì erano diminuite le richieste per i sussidi di disoccupazione, ma non è stato interpretato come un buon segnale.