Sarà prima di tutto una guerra economica perché «il denaro è la linfa vitale delle organizzazioni terroristiche». Così ha detto ieri il presidente degli Stati Uniti, reclamando il blocco dei beni, dei flussi finanziari e dei depositi bancari intestati o attribuibili a personaggi che fanno parte, o possono essere i fiancheggiatori, del terrorismo internazionale, o sostengono i gruppi che fanno capo allo sceicco arabo Osama bin Laden. C’è da chiedersi quanto, tra gli interessi bancari palesi e occulti e le incredibili e accertate deficienze delle agenzie di intelligence, un tale blocco dei beni sia davvero possibile (e non vada ad aggravare i già pesanti cedimenti delle Borse, che vedrebbero ancora decurtate o congelate le speculazioni che ne sono l’anima e il motore). Ma in ogni caso meglio questo che la “guerra termonucleare globale” che credevamo relegata alla terminologia immaginifica di film come “War Games”, diventata invece, improvvisamente, il nostro orizzonte quotidiano prossimo. L’Occidente non sarà più lo stesso, si ripete a destra e a manca, dopo l’attacco al World Trade Center (che tradotto significa – significava – Centro del Commercio Mondiale), già cuore pulsante degli affari, di Manhattan e dell’America. E non sarà più lo stesso neppure il senso e il ruolo, reciproco o alternativo, dello Stato e del mercato in un’economia moderna. Ammesso che ci possa essere, dopo gli intenti reboanti di “guerra infinita” annunciati da George Walker Bush in risposta all’attacco terrorista dell’11 settembre, un tempo e un luogo dove il concetto di economia moderna possa ancora dispiegarsi, magari in modo meno unilaterale e senza i caratteri di “dittatura della crescita” che il Nord del mondo e gli Stati Uniti hanno imposto al resto del pianeta.
Lo choc del futuro Lo choc di quanto è avvenuto, e lo sgomento su quanto potrà ancora accadere, è così grande che persino organi di stampa come il Wall Street Journal, foglio finanziario di New York e organo dell’informazione economica americana, “strutturalmente” schierati in supporto del capitalismo occidentale – e del fondamentalismo liberista che lo ispira e lo accompagna -, hanno cominciato a interrogarsi sulle giustificazioni etiche e sulle motivazioni storiche che hanno opposto in economia lo Stato al mercato. Vale a dire l’interesse collettivo al profitto individuale, i bisogni dei più all’accumulazione dei pochi, la povertà infinita dei poveri alla ricchezza crescente dei ricchi. Revisione di una ideologia economica tanto più vistosa in quanto condivisa dai banchieri centrali: da Alan Greenspan, prontamente intervenuto con il taglio dei tassi di costo del denaro, in sostegno del dollaro e per ottundere il rischio di tracollo finanziario seguìto agli attentati terroristici; fino al governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, che ierlaltro, nell’inviare un indirizzo di saluto a un convegno dell’Università di Cassino, ha affermato: «Dobbiamo reagire con nettezza al terrorismo e, nel contempo, dobbiamo impedire un regresso nelle relazioni tra Stati e popoli… La pacifica convivenza e la distensione internazionale sono beni fondamentali, presupposti essenziali per il futuro del lavoro, dell’economia e del governo della globalizzazione». Fazio ha concluso, con uno dei suoi colpi di coda manipolatorii, più o meno fuori contesto, dicendo che «il secolo breve, il Novecento, ha sconfessato la validità di visioni ispirate al materialismo storico che, fiduciose in un esito deterministico di liberazione, hanno finito con il suscitare eventi rivoluzionari e gravi conflitti sociali che hanno privato della libertà. Visioni che interpretavano la storia come sviluppo di un’eticità superiore, identificantesi con lo Stato, che del pari hanno avuto esiti di guerre e di lutti». In tempi di conflitti si scatenano sempre le ideologie e la propaganda, il più spesso in modo ignobile e con tecniche subdole, a giustificare il disastro e i danni che inevitabilmente seguiranno e che colpiranno di più le popolazioni civili, mietendo vittime innocenti. Anche il “Corriere della Sera”, capofila dell’informazione moderata in Italia, riprendendo nel supplemento economico l’articolo del giornale newyorkese, ieri scriveva: «Ignorando l’ortodossia liberistica, George W. Bush sembra aver abiurato la teologia del mercato. I deficit delle compagnie aeree, dissanguate dalla crisi economica che già prima dell’11 settembre si era fatta sentire. .. saranno in parte ripianati con 17 miliardi di dollari di denaro pubblico. E sarà lo Stato a farsi carico dei maggiori costi della security negli aeroporti… L’America, insomma, sente, sotto lo choc del disastro, che il mercato non è tutto».
Una rete di protezione E “Affari e Finanza”, supplemento economico della “Repubblica”, ieri ha riservato sette pagine all’analisi dell’economia di guerra, attraverso gli interventi di autorevoli economisti e commentatori. Della lunga e articolata analisi del professore di economia politica Marcello De Cecco, colpisce più di tutto il passaggio finale, laddove sostiene che: «La dirigenza americana sa benissimo che far durare a lungo lo stato di incertezza e di angoscia significa dare il colpo di grazia all’economia… Solo assicurando le bande di terroristi alla giustizia o distruggendole sul campo si può liberare i cittadini dall’angoscia che li pervade. Se questo accade, anche tenendo conto delle enormi iniezioni di liquidità che le banche centrali stanno effettuando da due settimane per reggere i mercati e le nuove spese militari, è prevedibile una reazione di euforia che spingerà in alto i consumi e gli indici finanziari, e potrà persino far ripartire gli investimenti. Se questo non accade e l’emergenza dura nel tempo, non resterà che cambiare la struttura dell’economia tornando ai sussidi statali per interi settori che altrimenti rischiano di crollare, e a una rete di interventi dirigistici dei quali si è in questi decenni perduta la memoria… Gli americani credono che limitare la libertà economica conduca anche a limitare quella politica. Speriamo, innanzitutto, che non ce ne sia bisogno e che, se invece la situazione lo richiede, emerga un nuovo Roosevelt che dia l’avvio a un nuovo New Deal». Come dire: ci vuole un’economia di Stato per sostenere un’economia di guerra, in attesa che riparta una nuova fase di crescita in grado di riavviare i profitti del mercato, in cui per definizione lo Stato arretra e il privato avanza. In fondo, niente di molto diverso dalle spinte che precedettero la guerra di Corea o quella nel Vietnam; o anche quelle locali, di sostegno, tattiche, chirurgiche o umanitarie, di volta in volta accampate in America centrale, in Iraq e, appena un anno fa, in Kosovo. Per non parlare delle eterne guerre fredde che hanno giustificato il finanziamento pubblico americano di tutti gli armamenti nucleari e degli scudi spaziali a mano a mano addotti quali strumenti di tutela della civiltà. Niente di nuovo, insomma, sul fronte occidentale.