Per essere l’unico settimanale della sinistra americana, The Nation ha uffici incredibilmente spaziosi, ben arredati, in un indirizzo elegante proprio accanto a Union Square. Victor Navasky è fiero di averne portato la diffusione da 19.000 a quasi 100.000 copie (96.000 abbonamenti). Dopo esserne stato il direttore dal 1978, dal 1995 ha affidato la gestione operativa all’attuale direttrice Katrina vanden Heuvel, è rimasto direttore editoriale fino all’anno scorso, ora ha il titolo di editore emerito, ma passa tutte le sue lunghe giornate di lavoro nel suo ingombro ufficio, con la scrivania coperta di pile di libri. Molto del suo tempo è dedicato alle ancora precarie finanze del settimanale.
Tarchiato, sorride con un’espressione indecifrabile da giocatore di poker, ma non si è mai seduto al tavolo di uno dei maggiori finanziatori di The Nation, l’attore Paul Newman: «Lì le poste sono troppo alte», dice, e aggiunge: «Paul Newman ci ha dato sol+di anche se spesso non è stato d’accordo con le nostre posizioni, ma ha sempre pensato che per riequibilibrare il sistema c’è bisogno anche della nostra voce», e mi chiedo perché non ci sia mai stato un Paul Newman italiano per il manifesto.
Navasky si era laureato in legge a Yale e, prima di entrare in The Nation, è stato a lungo redattore del New York Times Magazine. Si è occupato molto di Hollywood: sul mondo dello spettacolo e il maccartismo ha scritto Naming Names (Viking, 1980) che ha vinto l’American Book Award. Tra i suoi altri libri, Kennedy Justice (Atheneum, ’77) e – insieme a Christofer Cerf – The Experts Speak: The Definitive Compendium of Authoritative Misinformation. È stato anche professore di giornalismo periodico alla Graduate School of Journalism della Columbia University.
L’allegria della settimana scorsa per i risultati delle elezioni di mezzo termine, fa già posto alle incertezze per il futuro.
Le tv stanno martellando gli americani con l’Iraq come mai in precedenza. E tutti chiedono ai democratici vincitori di «passare alla consegna» subito (deliver, cioè mantenere le promesse). Invece il calendario istituzionale farà slittare tutto almeno a inizio febbraio, dato che il nuovo parlamento s’insedierà solo a gennaio. Ma l’opinione pubblica non sembra disposta a concedere tutto questo tempo né a Bush né ai democratici.
Non me l’ero mai posta in questi termini: siamo abituati da sempre ai due mesi d’intervallo tra elezioni e insediamento del nuovo parlamento. E poi adesso tutti si nascondono dietro la commissione bicamerale Baker (dal nome dell’ex segretario di stato di George Bush padre, James Baker III) che consegnerà il rapporto con i suggerimenti per una nuova strategia in Iraq non prima dell’anno prossimo. Ma a preoccupare davvero è l’atteggiamento dei democratici. In campagna hanno parlato tutti contro questa guerra. Ma a molti di loro non piaceva perché non erano stati mandati abbastanza soldati; per altri invece i soldati non erano stati dotati delle giuste armi.
Altri dicono che se avessero saputo che non c’erano armi di distruzione di massa… Ma non sappiamo assolutamente niente di quel che intendono fare. E tanto meno conosciamo le intenzioni dei nuovi 32 deputati e 6 senatori: alcuni sono più conservatori dei loro predecessori. Perciò temo per questa guerra qualcosa di simile a quel che successe per il Vietnam nel 1968, quando Lyndon Johnson rinunciò a candidarsi, proprio a causa della guerra, e Richard Nixon s’insediò dicendo che aveva un «piano segreto» per finire la guerra e invece la continuò per altri sei anni, e quella che era stata una guerra dei democratici divenne una guerra dei repubblicani. E la cosa peggiore che può succedere è che questa guerra repubblicana divenga una guerra democratica perché i democratici non hanno il coraggio di cambiare davvero. Già molti di loro dicono che vogliono mandare più truppe.
Bastava ascoltare mercoledì l’audizione del generale John Abizaid alla Commissione Forze armate del Senato, con Hillary Clinton che in pratica chiedeva di mandare più truppe: gli americani hanno detto chiaramente che vogliono farla finita con questa guerra e gli viene risposto che l’unico modo per andarcene dall’Iraq è mandarci altri 50.000 soldati. E più truppe significa più terrorismo, più occupanti significano più resistenza. E il problema del tempo significa solo che avranno agio di cucinarsela a modo loro. Questo nella peggiore delle ipotesi. Ciò detto, è molto meglio così che se i repubblicani avessero vinto.
Il fatto che i democratici controllino Camera e Senato avrà un impatto forte soprattutto sulle questioni della giustizia: quel che attiene a tortura, detenzioni illegali, intercettazioni senza autorizzazione sarà deciso dai tribunali, e le nomine dei giudici l’anno prossimo saranno cruciali. Comunque parla uno che nel 1952 aveva pronosticato Adlai Stevenson come presidente (invece la vittoria del generale Dwight Eisenhower fu schiacciante, ndr). Sono un ben misero profeta.
Ma queste elezioni non segnano il declino definitivo del vice presidente Dick Cheney?
George W. Bush ha già sacrificato Donald Rumsfeld, e non lo avrebbe fatto se i repubblicani non avessero perso le elezioni. Ma non credo che smetterà di ascoltare Cheney. Altra cosa è sapere se seguirà i consigli di Cheney. E sapere se Cheney non ha cambiato idea: è un realista e che sa benissimo qual è il clima politico interno. L’unica spiegazione per il comportamento di Bush è religiosa. La sua decisione d’invadere l’Iraq nel marzo 2003 non è stata politica, strategica e neanche tattica. Da un punto di vista politico, se fosse stato cinico avrebbe rimandato l’invasione più a ridosso dell’elezione del 2004. E, secondo me, continua a crederci nella guerra in Iraq, ma con uno spirito religioso.
Cosa cambiano queste elezioni?
Da un punto di vista di politica interna, le elezioni sono una vittoria dello stato sociale. Ha perso slancio l’idea per cui l’era dello stato è finita – idea condivisa anche da Bill Clinton. Ora una maggioranza, incluso qualche repubblicano, pensa che si debba aumentare il salario minimo, che ci debba essere una qualche forma, anche embrionale, di servizio sanitario per i 40 milioni di americani che ora non hanno nessuna copertura sanitaria. Se guardiamo alle elezioni recenti, i democratici erano certi di avere un 45% dei voti, i repubblicani l’altro 45% e tutto era deciso dal 10%; e nelle ultime elezioni i democratici hanno commesso l’errore di credere di poterle vincere inumidendo il dito e sentendo il vento, presentandosi quasi come repubblicani.
Il problema è che quel 10% non è né democratico né repubblicano, ma vota per un candidato che sia credibile, su cui contare. E candidati che fiutano il vento non sono affidabili. Penso che Ronald Reagan fu eletto non perché era conservatore ma perché la gente pensava di potergli credere. E lo stesso è avvenuto con Bush giovane: sia Al Gore, sia John Kerry hanno avuto un problema di credibilità durante la campagna. Anche se ora Gore è il candidato più interessante. Ancora non si è candidato ufficialmente, ma sta attrezzandosi.
E il senatore Barak Obama, la nuova stella del firmamento democratico, non è interessante?
Credo che, se si candida, lo farà come vicepresidente.
Un ticket Hillary Clinton/Barak Obama?
Molti pensano che Hillary possa vincere le primarie ma che poi perderà le elezioni. Io credo il contrario, che per lei sarà difficile vincere la nomination. Una parte dei militanti democratici, la parte progressista, il pubblico di The Nation, non l’ama per la sua posizione sulla guerra in Iraq: la voterebbe a novembre 2008 se dovesse, ma non la sceglierebbe come candidata. Un’altra parte, completamente diversa, è quella che l’anno scorso si coalizzò per stoppare Howard Dean che stava andando alla grande, ma che loro ritenevano non avrebbe potuto vincere le elezioni e così diedero la nomination a John Kerry.
Neanche questa seconda componente la voterà nelle primarie: perché è una donna, perché ha un sacco di nemici, perché perché… E poi le primarie cominceranno in Iowa, in New Hampshire, in North Carolina, dove c’è John Edwards. E nessuno di questi stati è una sua roccaforte. Lei è forte nello stato di New York, in California, ma le primarie arrivano tardi in questi stati, a giochi ormai fatti. E se uno comincia a perdere le prime tre primarie di fila, è subito fatto fuori.
Ma con la californiana Nancy Pelosi presidente della Camera saranno forse anticipate le primarie di California in modo che non avvengano più a giochi ormai fatti.
In questo caso i primi due argomenti a sfavore di Hillary tengono ancora, il terzo decade. John Edward invece era stato deludente come candidato alla vicepresidenza, forse solo perché faceva quello che Kerry gli diceva di fare. Ma il suo messaggio sulle «due Americhe» è adeguato allo stato sociale del nostro paese, le sue pubbliche scuse per aver votato a favore della guerra sono convincenti. Perciò è un candidato possibile. Anche Kerry lo sarebbe senza la gaffe che ha commesso alla fine della campagna elettorale. E poi ci sono i conservatori. Perché, bene o male, tutti costoro – Gore, Obama, Clinton, Edwards e Kerry – appartengono all’ala liberal, e l’ala conservatrice del partito democratico dovrà ben presentare qualcuno.