Di fronte alle immagini degli «abusi» avvenuti nella prigione irachena di Abu Ghraib, il presidente Bush ha avuto «una reazione di profondo disgusto e incredulità sul fatto che chi indossa la nostra uniforme possa compiere atti così vergognosi e raccapriccianti» (The New York Times, 11 maggio). Eppure, in qualità di comandante supremo delle forze armate, egli dovrebbe essere a conoscenza dei manuali che insegnano tali tecniche ai militari. Due di questi sono stati declassificati (anche se con alcune parti cancellate) il 24 gennaio 1997, durante l’amministrazione Clinton, in seguito a una azione legale intrapresa dal giornale The Baltimore Sun. Sono lo Human Resource Exploitation Training Manual – 1983, usato dall’esercito Usa in particolare per le operazioni in Honduras, e il Kubark Counterintelligence Interrogation – 1963, un manuale usato dalla Cia in Vietnam, su cui si basa quello del 1983. Le analogie con le tecniche impiegate ad Abu Ghraib sono impressionanti. Il manuale del 1983 insegna che «i sospetti devono essere denudati e bendati» e che «le stanze degli interrogatori devono essere senza finestre, buie, acusticamente isolate e senza toilet». Poiché «il senso di identità di una persona dipende dal continuo contatto con ciò che la circonda», la detenzione deve essere «pianificata per dare al soggetto la sensazione di essere tagliato fuori da qualsiasi cosa conosca e lo rassicuri». Occorre però evitare che «la detenzione divenga monotona al punto tale da far diventare il soggetto apatico». Vanno quindi usati in continuazione «metodi di rottura che lo disorientino e gli incutano sensazioni di paura e impotenza». Tra questi, improvvisi interrogatori ed «esami medici in tutte le cavità del corpo».
Dalla «privazione degli stimoli sensoriali» si passa alle «minacce» che devono essere «espresse freddamente», in quanto «espressioni di ira da parte degli inquirenti sono spesso interpretate dal soggetto come timore di un fallimento e rafforzano in lui la volontà di resistere». Se il soggetto resiste, «la minaccia deve essere attuata, altrimenti la successiva si rivelerà inefficace». Il manuale affronta quindi il capitolo del «dolore», avvertendo che, «quando è inflitto dall’esterno, può rafforzare la volontà del soggetto di resistere». Il metodo più efficace è quello che sia «lui stesso a procurarsi il dolore che sente».
Ad esempio, «se il soggetto è costretto per lungo tempo a mantenere una posizione rigida, come quella dell’attenti, o stare seduto in posizione scomoda su uno sgabello, la fonte immediata del dolore non è l’inquirente ma lui stesso: il suo diviene quindi un conflitto interno». La situazione del prigioniero incappucciato che, ad Abu Ghraib, è costretto a stare in equilibrio su una scatola con in mano degli elettrodi che gli danno la scossa se mette i piedi in terra, altro non è che una variante di questa tecnica. Anche se il manuale, prima di essere declassificato, è stato corredato da un cappello in cui si definisce illegale la tortura, esso contiene due riferimenti all’uso di scosse elettriche negli interrogatori. Avverte infatti che è necessaria l’approvazione del comando «se devono essere usati nell’interrogatorio metodi medici, chimici o elettrici per ottenere acquiescenza». E, nel dare istruzioni sulla preparazione della «stanza degli interrogatori» che «deve essere conosciuto in anticipo qual è l’impianto elettrico, così che i trasformatori e altri apparecchi siano a portata di mano se necessario». Prima che in Iraq, queste tecniche di interrogatorio sono state usate dall’esercito e dai servizi segreti statunitensi in Afghanistan. Lo conferma una inchiesta compiuta dal Washington Post (26 dicembre 2002): nel «centro di interrogatorio segreto della Cia», all’interno della base aerea di Bagram in Afghanistan, «coloro che rifiutano di cooperare sono talvolta tenuti in piedi o in ginocchio per ore, con la testa coperta da un cappuccio nero.
A volte sono tenuti in dolorose posizioni e privati del sonno per ventiquattrore con continui lampi di luce. Mentre il governo statunitense condanna pubblicamente l’uso della tortura, ciascuno degli attuali funzionari della sicurezza nazionale, da noi intervistati, ha difeso l’uso della violenza contro i prigionieri come giusta e necessaria».
Ciò che è emerso in Iraq non è dunque frutto di una deviazione dalle norme ad opera di pochi militari indegni, ma di un metodo scientificamente studiato cui vengono addestrati i militari. Ed è solo la punta dell’iceberg. Secondo The Washington Post (11 maggio), «nella costellazione mondiale di centri di detenzione, molti dei quali segreti e tutti preclusi a pubbliche inchieste, costituiti dalle forze armate Usa e dalla Cia in nome del controterrorismo», vi sono «oltre 9.000 prigionieri, senza alcun diritto legale». Quali siano in questi centri di detenzione le tecniche di interrogatorio, è facile immaginarlo.