Ecco come e perché si sbatte il mostro in prima pagina

Conviene anzitutto sgomberare il campo del dibattito da una confusione niente affatto spontanea e innocente: la campagna propagandistica di stampo razzista che ha preso le mosse da alcuni episodi recenti di cronaca nera è cosa radicalmente diversa – e così va trattata – da una seria e pacata discussione sull’intollerabile escalation della violenza patriarcale contro le donne. Del pari, nessun serio dibattito sulla riforma della cittadinanza o sui modelli d’integrazione e sulle loro eventuali derive può muovere da quell’ordine di discorso. Come, fra gli altri, ha scritto efficacemente Alessandro Dal Lago in un editoriale su questo giornale, la campagna di sciocchezze, diffamazioni e volgarità razziste dopo i cosiddetti fatti di Brescia denota una logica da faida: la responsabilità individuale di un crimine commesso da un certo soggetto viene fatta ricadere come colpa collettiva sull’intero suo gruppo di appartenenza o addirittura sul sistema religioso cui si suppone egli aderisca.
Emblematica di questa strategia retorica – che si serve del dispositivo dell’etnicizzazione del crimine individuale per gettare discredito sull’intero mondo dell’immigrazione e, più in generale, sul Nemico musulmano – è una delle numerose pagine di cronaca che un giornale indipendente ha dedicato alla tragica vicenda dell’assassinio per mano del padre di Hina Saleem, la giovane pakistana di Brescia: una “finestra” a centro-pagina spiegava ai lettori “cosa afferma il Corano” a proposito di punizione delle donne. Per cogliere la logica aberrante che guida questo dispositivo comunicativo basterebbe immaginare che putiferio solleverebbe un’improbabile pagina dello stesso quotidiano che, dando conto alla stessa maniera scandalistica dell’omicidio di una donna per mano del marito italiano, presuntamente cattolico, dedicasse una finestra a “cosa afferma la Bibbia”, magari citandone i passi più violentemente misogini.

Come suggerisce ironicamente qualcuno, forse bisognerebbe proporre ai media ed ai politici una moratoria dei termini “religione”, “cultura”, “tradizione”…Certo, essendo il razzismo un fenomeno a geometria variabile, si troverebbero prontamente altri termini per dire i medesimi argomenti-standard – gli immigrati sono una minaccia per la nostra “civiltà”, società, economia, sistema di valori…- e dunque la moratoria sarebbe del tutto vana. Ciò che è impressionante, infatti, è la ripetitività dei dispositivi e dei topoi che permettono la riproduzione del discorso razzista: la generalizzazione arbitraria, il caso individuale elevato ad emblema ed essenza di un’intera categoria di persone, la costruzione dell’idea di una pericolosità ontologica dello Straniero, l’associazione fra immigrati e ogni genere di mali e allarmi sociali.

Basta ricordare che in un altro agosto, quello del 1997, un’analoga campagna allarmistica assunse a pretesto tre omicidi compiuti da altrettanti cittadini stranieri per scatenare un’isterica offensiva contro la preannunciata legge organica sull’immigrazione, che si andava profilando come alquanto avanzata rispetto agli standard europei. La campagna non fu vana, se è vero che il testo di legge subì una serie di modifiche peggiorative… Se non avessero la memoria assai corta, i nostri giornalisti si sarebbero chiesti come mai in agosto gli stranieri si dedichino alla pratica dell’omicidio e dello stupro: chissà, avrebbero scoperto una nuova sindrome patologica da canicola, che colpisce coloro che sono privi di nazionalità italiana… In assenza di stupri e di omicidi volontari compiuti da “extracomunitari”, si può raschiare il barile delle notizie d’agenzia per tirarne fuori fatti d’altro genere imputabili agli immigrati. E’ ciò che fecero i media nel dicembre del 2000 quando, assumendo a pretesto un incidente automobilistico mortale provocato dalla guida maldestra di uno straniero e poi selezionando accuratamente altri casi analoghi, inventarono il teorema degli immigrati come responsabili della “piaga” degli incidenti stradali (è un costume che appartiene alla loro “tradizione”, che discende dalla loro “cultura”, che è prescritto dalla loro religione?).

Al di là della manipolazione dei media, resta il tragico fatto di due omicidi di donne per motivi che sembrano avere strettamente a che fare con la cultura patriarcale; restano le cronache degli stupri di questa estate, anch’essi propri di sistemi sessisti fondati sull’appropriazione delle donne, di qualunque nazionalità e condizione sociale siano gli autori dei crimini. La violenza, anche mortale, contro le donne davvero non ha confini: né di nazionalità e “colore”, né di status e classe. Non è forse un cittadino italiano, stimato direttore artistico del teatro di Macerata, colui che, neppure due mesi fa, dopo aver tentato di strangolare la moglie, la gettò ancora viva in un cassonetto dell’immondizia, impacchettata in un sacco di plastica? Non si tratta, allora, di minimizzare o derubricare gli assassinii di Hina Saleem e di Elena Lonati né gli stupri compiuti da immigrati, ma (come giustamente ha rimarcato Ida Dominijanni in un recente articolo sul “manifesto”) di «drammatizzare quelli nostrani che la cronaca gonfia e sgonfia nel giro di ventiquattr’ore». Nel 2005 solo in Italia almeno un centinaio di donne sono state uccise per mano di uomini per lo più appartenenti alla loro cerchia (mariti, partner, parenti, vicini…). E su scala mondiale v’è il dato agghiacciante dell’omicidio come prima causa di morte delle donne. Ma quanti sono gli uomini disposti a mettere radicalmente in discussione l’ordine ideologico, culturale, economico, sociale, politico, fondato sul dominio maschile? E non v’è forse il rischio che i “femminicidi” e gli stupri compiuti dagli Altri assolvano la funzione di occultare o minimizzare l’ordine sessista che governa anche le nostre società generandovi discriminazioni e violenze?

Certo, il sessismo, le ideologie e le pratiche che da esso discendono non possono essere rappresentati come una notte in cui tutte le vacche sono nere (la nozione di patriarcato è stata spesso sottratta ad ogni dimensione storica, anche in ambito femminista). Il dominio maschile si manifesta, infatti, secondo forme, gradi, livelli diversi nel tempo e nello spazio, secondo norme sociali e costumi differenziati. Che in alcuni paesi e in alcuni ambienti permangano l’ideologia o la pratica del delitto d’onore è cosa ben nota. Ma che il modello liberale sia sufficiente a liberare le donne è cosa discutibile.

E’ in questo quadro che andrebbero iscritti il dibattito sui cosiddetti modelli d’integrazione e la critica del modello multiculturalista di stampo anglosassone, intorno al quale fra gli specialisti continua una discussione vecchia di decenni (Amartya Sen non fa che riprenderne alcuni termini). Ben al di là della contrapposizione fra modelli idealtipici (quello “multiculturalista” all’anglosassone versus quello “universalista” alla francese), la realtà ci mostra ogni giorno che il razzismo neocoloniale verso popolazioni immigrate o d’origine immigrata produce nei paesi europei effetti sociali comparabili in termini di discriminazione, segregazione, ineguaglianza…Speriamo che il governo di centrosinistra non si lasci abbindolare dalle sirene delle campagne allarmistiche e che comprenda altresì (come auspica anche Dal Lago) che il tema della cittadinanza sociale e politica può essere efficacemente articolato e affrontato solo se si abbandonano le retoriche dell’emergenza e dell’invasione.