E’ stato un buon congresso. Lo dico con un po’ di pudore, perché non mi piace usare una espressione che è l’opposto di quella usata recentemente – in un articolo sul manifesto – da Rossana Rossanda, visto che considero Rossanda una delle menti pensanti della sinistra (e non è che poi ce ne siano tantissime…) e visto che le sue analisi, da diversi anni, ci aiutano a capire come va il mondo. Però sono convinto di aver ragione: il congresso di Rifondazione comunista, che si è chiuso una settimana fa a Venezia, è stato importante, ricco, vivace, pieno di idee. E siccome è stato anche capace di scegliere una linea politica e di prendere atto di vari e chiarissimi dissensi a questa linea politica, non capisco come non lo si possa considerare un buon congresso. I congressi servono a questo: a definire la direzione di marcia di un partito e a capire chi si oppone, quanto si oppone, perché si oppone. Spesso succede che si esca da un congresso senza che nessuna di queste cose sia stata chiarita. Quelli sono cattivi congressi. Dal congresso di Rifondazione invece si è usciti in un quadro di grande chiarezza. Si conosce la linea di maggioranza, sono limpide le critiche delle minoranze.
Non voglio fingere di non capire qual è l’obiezione di Rossana Rossanda, anche perché di quella obiezione hanno discusso nei giorni scorsi, su queste pagine, Rina Gagliardi e Salvatore Cannavò, cioè due compagni con i quali tutti i giorni io faccio il giornale, e discorro di politica, e con i quali confronto opinioni che non sempre coincidono ma che generalmente convergono, si intrecciano, interagiscono. Rossanda ha fatto notare – riassumo e semplifico un po’ – che nel congresso si è imposta una linea di maggioranza, e che questa maggioranza ha voluto anche modificare lo statuto e ha rifiutato la ricerca di una sintesi con la minoranza e la composizione di organi dirigenti (esecutivi) comuni. Ha preferito assumersi da sola le sue responsabilità di maggioranza. Secondo Rossanda questo è una specie di strappo alla democrazia, un gesto di arroganza di Bertinotti. Secondo Rina Gagliardi invece è una scelta che permette alle minoranze di continuare ad avere tutto lo spazio e la visibilità necessari, e permette alla maggioranza di fare politica a tutto campo, cioè di esercitare il proprio diritto-dovere e il ruolo del quale, in questo momento, la sinistra italiana ha molto bisogno. Secondo Cannavò, la maggioranza del partito avrebbe potuto garantirsi la piena autonomia delle proprie scelte e della propria iniziativa politica, pur trovando spazi di gestione comune del partito con le minoranze.
La sinistra, spesso, concentra le sue notevoli forze, energie e intelligenze nell’esercizio di attività interne ai partiti e alle proprie correnti, che riguardano non la politica attiva ma le regole della politica, e le regole – credo – sono un aspetto importante della politica, ma non esclusivo.
Io penso che sarebbe più ragionevole considerare conclusa, almeno per un po’, questa discussione e questa battaglia, e utilizzare i risultati del congresso per tornare tutti al centro dell’arena e tentare la sfida della costruzione di una sinistra vincente. Naturalmente, prima bisognerebbe intendersi su cosa vuol dire vincente. Non significa – credo – semplicemente prendere voti. Vuol dire essere capaci di imporre i propri punti di vista su come si riforma la società, lo Stato, il lavoro, il mercato, le relazioni internazionali.
La nostra sfida, in fondo, è tutta qui. Bertinotti ha indicato una strada da percorrere che a me sembra molto suggestiva. Difficile, ardua, ma suggestiva. Ha detto che si è aperta una vera e propria crisi delle classi dominanti – della borghesia – e questa crisi determina una incertezza sul modello di sviluppo del paese e sul sistema di comando, e questa incertezza comporta lo sbalestramento del liberismo e un forte indebolimento dell’identità e delle ricette riformiste: in questo quadro lo spazio per la sinistra è grandissimo, e diventa più grande se si riesce a definire un progetto di società alternativo a quello attuale, che è fondato sulla precarizzazione, sul rifiuto dell’innovazione, sulla compressione dei diritti e dei beni comuni, sulla globalizzazione guidata dal capitalismo. E dunque – riducendo tutto in arida formula – la sinistra deve andare al governo.
Bertinotti ha detto che non è giusta una politica dei due tempi: prima si fa un programma e poi si fa politica. Ha detto che il programma è politica, e cioè che va costruito, ottenuto, conquistato, imposto, nel fuoco di una battaglia fatta di conflitto, di rapporti e di mescolamenti con i movimenti, e anche di collaborazione con gli altri partiti della sinistra, del centrosinistra e di una parte del centro.
Le minoranze si sono presentate al congresso su una posizione di contrasto aperto alla linea di Bertinotti e con obiezioni molto ben articolate. Una parte delle minoranza, quella più di sinistra – scusate anche qui la semplificazione – sostiene che la crisi della borghesia non c’è, è illusione, è semplice e secondario dissidio tra ali diverse delle classi dominanti. E quindi ha detto che l’operazione Bertinotti rischia di concludersi con una specie di sottomissione della sinistra al potere dei conservatori e ai loro disegni. Un’altra parte dell’opposizione, la più consistente – l’area dell’Ernesto, ma non solo – ha detto che il progetto di Bertinotti è giusto e mette in movimento forze nuove e importanti, ma che nessun progetto di governo può essere fatto se prima non si definisce un programma politico, non lo si negozia con gli alleati, non lo si fa accettare e non si trovano precise garanzie di attuazione. Quest’area dell’opposizione ritiene che dal centro-sinistra ex Ulivo non giungano affatto segnali di apertura sul programma, anzi ci siano degli arretramenti rispetto a qualche anno fa. E dunque che la maggioranza deve fare un passo indietro: non si può parlare ancora di ingresso nell’area di governo e l’averlo fatto è stato un errore grave di Bertinotti.
La discussione è arrivata a questo punto e la differenza delle posizioni appare chiarissima. Chiari appaiono anche i punti di convergenza, che sono due: la volontà comune di mettere la forza di Rifondazione sul piatto della bilancia, per battere il governo Berlusconi, e la scelta – a questo scopo – di alleanze elettorali con il centrosinistra. Ora cosa vogliamo fare: ricominciare da capo la discussione congressuale o invece ci decidiamo, ciascuno con le sue posizioni, a gettarci nella mischia, a uscire per il mondo, a navigare in mare aperto? Se non lo facciamo perdiamo una grande occasione. Ci sono pezzi grandissimi della società italiana – del mondo vasto della protesta, della ribellione, dell’opposizione al conformismo e al potere cieco del mercato – che aspettano una sponda politica, per potersi organizzare, per potere contare, per ricominciare ad agire e produrre lotte e azioni positive. Se ci decidiamo, con coraggio, a incontrare questi pezzi della società e a fare politica con loro, mettendo a frutto la linea politica del partito di Rifondazione e anche le obiezioni delle minoranze, può darsi che in un tempo abbastanza breve scopriremo che i dissensi al nostro interno sono meno rilevanti di quel che credevamo, e allora sarà più facile anche risolvere il problema delle regole e del rapporto fra le componenti e le correnti. Se non faremo questo, perdiamo la grande occasione. Lasciamo ai riformisti, e anche alla destra, lo spazio per riorganizzarsi e superare la loro crisi. Sarebbe un suicidio, mi pare.