E se tornassimo a parlare di salario?

A pochi mesi dalle elezioni politiche – tra primarie, scontri sulle formule organizzative di coalizione, bracci di ferro su leadership e assetti – dalla discussione programmatica della politica italiana (tanto nel centro destra quanto nel centro sinistra) emerge un grande assente: la questione salariale. Sono le nude cifre a dimostrare l’insostenibilità dell’attuale condizione di ripartizione della ricchezza prodotta tra profitto e salari.

Nel decennio 1993 – 2003 il 3% del PIL e passato dal monte salari ai profitti delle imprese. I dati resi noti nella primavera 2004 dall’Osservatorio dell’industria metalmeccanica della FIOM CGIL, ci parlano di una perdita netta per gli operai di questo settore del 5,8% negli ultimi dieci anni, questo significa che su un salario medio di mille euro, ne mancano circa 60, vale a dire 800 euro l’anno. E la perdita del potere d’acquisto è ancora maggiore con l’abbassarsi del reddito, variando tra il 7% e il 14% ad esempio per i redditi tra i 10 e i 30 mila euro. Il dato generale degli ultimi tre anni, secondo le stime della IRES CGIL, è che la busta paga dei lavoratori dipendenti ha perso l’1,9% del suo potere d’acquisto, pari a ben 1340 euro.

Dal 2004 ad oggi la situazione è ulteriormente peggiorata, al punto che si è determinato un drammatico innalzamento della soglia di povertà tanto da coinvolgere nuovamente – cosa che non accadeva dal dopoguerra – fasce sempre più importanti di lavoro dipendente. Secondo i dati sulla povertà calcolati sui consumi medi, resi noti dall’ISTAT nell’ottobre2005, ben 2,6 milioni di famiglie risultano al di sotto della soglia di povertà vale a dire l’11,7% della popolazione rispetto al 10,8% dell’anno precedente. Povertà che dilaga tra giovani, anziani e donne specie nel sud Italia dove una famiglia su quattro vive al di sotto di questa soglia e dove il 25% delle famiglie è nella cosiddetta fascia delle famiglie “relativamente povere”.

In questo contesto si inserisce la manovra finanziaria varata dal Governo Berlusconi che è tutta incentrata sull’ulteriore contenimento della crescita salariale e sul taglio della spesa pubblica. In particolare tagli al trasferimento di risorse ad Enti Locali e Regioni, vale a dire tagli alle politiche socio-assistenziali e alla spessa sanitaria. Non sono necessari troppi giri di parole per intuire la devastazione sociale che può produrre l’insieme di questi fattori.

Tutti i dati di rilevamento degli ultimi anni hanno dimostrato che i pensionati sono stati i cittadini che hanno pagato i maggiori costi sociali dell’aumento del costo della vita e del taglio delle spese sociali dello Stato. Ma la questione pensioni non diviene centrale solo in relazione alla necessità di adeguare le prestazioni erogate al costo della vita, perché la controriforma varata in tutta fretta a colpi di fiducia nel corso dell’estate 2004 mette a repentaglio anche la possibilità di percepire una pensione per le generazione che si affacciano ora e si affacceranno nei prossimi anni nel mercato del lavoro. Pure in questo caso al danno di un’opposizione blanda da parte del centro sinistra e dei sindacati, si aggiunge la beffa di un’assoluta indisponibilità – qualora il centro sinistra vincesse le elezioni – ad intervenire per cancellare la controriforma voluta da Maroni.

Eppure, anche in questo caso, basterebbero solo le nude cifre per comprendere la grave situazione sociale che ci si para davanti. Negli ultimi quattro anni, secondo dati ISTAT, più di un milione di italiani è andato in pensione, l’OCSE ha poi calcolato che nel 2050 in Italia il 33% della popolazione avrà più di 65 anni, vale a dire che un italiano su tre peserà sul sistema previdenziale, le cui risorse invece sono destinate a diminuire a causa del calo demografico, della controriforma pensionistica e della recente Legge 30. La cosiddetta «riforma Biagi», precarizzando quote sempre più ampie di lavoro dipendente, determinerà infatti una sensibile e costante diminuzione dei valori medi contributivi. Vale a dire che finirà per determinare una costante crescita del disavanzo tra prestazioni e contributi, dato che questi ultimi avranno come origine sempre più lavoratori precari e flessibili piuttosto che a tempo indeterminato, con il conseguente restringersi del gettito contributivo per le casse dell’INPS. Grazie a mirabili riforme del mercato del lavoro come quelle inaugurate dal pacchetto Treu , già tra il 1995 e il 2003 i contributi sono passati da 23, 1 miliardi di euro a 8, 9 miliardi.

Come i più avranno modo di ricordare, con gli accordi del luglio 92 e 93 è stata abolita la «scala mobile» perché si affermava che questa finiva per innescare una spirale inflattiva che deprimeva l’economia. Si disse che invece, agganciando l’indicizzazione salariale all’inflazione «programmata» e non a quella reale, e intervenendo poi a colmare l’eventuale scarto tra queste due attraverso la contrattazione effettuata dal sindacato al momento del rinnovo contratto nazionale, si sarebbe garantito il potere d’acquisto dei salari e al contempo si sarebbe favorita l’economia e l’occupazione. Oltre a questo l’accordo prevedeva un impegno governativo a tenere sotto controllo i prezzi, cosa che in un regime di esternalizzazione e privatizzazione o comunque l’affidamento ai privati di settori chiave dell’economia come il gas, l’elettricità e le telecomunicazioni, appariva già da allora come difficilmente realizzabile.

La contropartita dell’ accordo erano i milioni di posti di lavoro che un intervento di questo tipo avrebbe prodotto negli anni successivi, perché si disse che il taglio della scala mobile avrebbe prodotto un «circolo virtuoso», cioè avrebbe determinato il calo dell’inflazione e dei tassi d’interesse, i quali avrebbero poi a loro volta garantito un aumento degli investimenti produttivi e – in un regime di flessibilità e mobilità del lavoro – un aumento dei tassi d’occupazione, il tutto come già detto accompagnato dalla salvaguardia del potere d’acquisto dei salari.

I dati rilevati dall’ISTAT ci hanno invece detto tutt’altro: in Italia, a fronte di una crescita notevole di produzione, produttività e profitti, si è determinato un drastico ridimensionamento del potere d’acquisto dei salari, un sensibile calo degli investimenti produttivi – contemporaneamente ad un aumento sia degli investimenti delle imprese italiane all’estero che della speculazione finanziaria – mentre non si è vista nè una redistribuzione dell’enorme ricchezza prodotta (la soglia di povertà si è semmai alzata includendo anche fasce di lavoro dipendente), né tanto meno alcun incremento dei tassi occupazionali, anzi. Le imprese italiane, che hanno goduto di una massiccia liberalizzazione del mercato del lavoro, contratti d’area, lavoro interinale, contatti atipici, e di benefici d’ogni sorta, dai contributi alla rottamazione, agli sgravi fiscali e contributivi, hanno coperto le congiunture favorevoli con mero lavoro straordinario, cioè sfruttamento ulteriore di lavoro esistente. I dati economici hanno cioè dimostrato che l’insieme di quelle politiche economiche-sociali hanno accentuato la distruzione di posti di lavoro anziché contrastarla, hanno dimostrato che queste non solo non producono ricadute occupazionali sul territorio ma più spesso non fanno che accelerare il processo di delocalizzazione delle imprese stesse.

Per essere ancora più precisi nel periodo di maggior espansione dell’economia italiana, tra il 1996 e il 1997, a fronte di un raddoppio del fatturato delle imprese rispetto all’aumento del costo del lavoro (6,1% del primo contro il 2,3% del secondo) e a fronte di un aumento del valore aggiunto per addetto (del 3,4%), si ha una riduzione in Italia degli investimenti dello 0,1% e degli occupati dello 0,3%. Quasi contemporaneamente dai dati EUROSTAT si evince che nello stesso periodo l’economia italiana ha quasi raddoppiato il volume degli investimenti diretti all’estero, e che il saldo negativo tra il flusso dei capitali in uscita e quelli in entrata si è quasi triplicato (da 2,3 miliardi di ECU e 6,10 miliardi di ECU).

È dunque l’evidenza dei fatti a dirci che è ora di invertire la tendenza. La questione salariale non è solo un problema di ridistribuzione della ricchezza prodotta, ma è più in generale una questione di sistema economico, di modello di sviluppo; il salario è divenuto una variabile dipendente dell’economia finanziaria, del valore del denaro, delle politiche di stabilità, e i rapporti sono fondati oramai sul possesso di denaro e patrimoni e non sulla ripartizione della ricchezza prodotta. L’idea malsana di economia che ha avuto il suo boom negli anni Novanta, quella per cui si fanno soldi con i soldi attraverso speculazioni finanziarie spericolate di ogni tipo – come gli ennesimi scandali che scoppiano in queste settimane confermano – va radicalmente ostacolata e rovesciata. Ciò significa che si deve intervenire politicamente in favore di un diverso modello di sviluppo, che privilegi la produzione rispetto alla speculazione e che in ogni caso intervenga per ridistribuire, attraverso la tassazione, le enormi plusvalenze che si realizzano sui mercati azionari.

Ma su tutto questo versante il silenzio della politica italiana è reso assordante dalla trasversalità sempre più evidente che coglie con le mani nel sacco parte significativa della classe dirigente economica e politica nazionale. Unipol e Banca Popolare, così come i lunghi silenzi bipartizan su Fazio e le reazioni scomposte di entrambi i versanti della politica in difesa dei rispettivi amici, sono solo la punta di un iceberg fatto di un consociativismo affaristico e clientelare che ha al suo fondo la condivisione dello stesso modello di società e di economia. È di questo consociativismo teorico e pratico che si nutre la più vecchia e perniciosa malattia della politica italiana, il trasformismo.