Come uno degli autori che hanno contribuito al volume Sulle tracce di un fantasma, curato da Marcello Musto, sono lieto che le questioni lì trattate abbiano dato vita a un dibattito sulle pagine di questo giornale. Il libro, in effetti, testimonia di un recente interesse al rapporto Hegel-Marx. Questa “Nuova Dialettica” è però molto diversa da due diversi modi di appropriarsi di Hegel da parte dei marxisti: il Diamat di Engels e Plekhanov, e lo storicismo di Luk‡cs.
A mio parere, la lezione più importante che Hegel fornisce alla teoria contemporanea è la necessità di una dialettica sistematica delle categorie nella ricostruzione della logica interna della società capitalistica. I critici post-moderni attaccano ogni tentativo di pensiero sistematico come totalitario, e ovviamente Hegel viene presentato come un autore la cui logica sarebbe esempio di un sistema di pensiero “chiuso”, e secondo cui la storia inesorabilmente si muoverebbe verso un fine prestabilito. Come può dunque la filosofia della liberazione avere alcunché a che fare con Hegel? Per me la pertinenza di Hegel viene dal fatto che l'”Idea Assoluta” è l’eternizzazione della logica specifica del capitale. Il fondamento del sistema capitalistico è la realtà di quella astrazione nello scambio che è dovuta all’identificazione di merci eterogenee in quanto “valori”. Questa “astrazione pratica” produce una realtà “rovesciata”, nella quale le merci presentano la loro essenza astratta come valori, e i lavori concreti contano solo come diverse quantità di lavoro astratto.
Anche la logica di Hegel ha inizio con una astrazione da tutto ciò che è determinato, per lasciare solo “pensieri puri”. Per questo può essere utilizzata nella teoria marxiana, in quanto il capitale ha origine da un processo di astrazione pratica, nello scambio, sostanzialmente analogo alla dissoluzione e ricostruzione della realtà di Hegel, predicata sulla base del potere di astrazione del pensiero. Quando abbiamo a che fare con la logica del capitale siamo di fronte proprio a una Idea hegeliana: ovvero, a una astrazione che si muove autonomamente, benché questa idealità emergente sia racchiusa dentro una materialità sociale. E’ precisamente questa omologia con le forme della logica di Hegel che mostra il capitale quale realtà rovesciata, sistematicamente alienata dai suoi portatori. Visto che tale inversione implica una interpenetrazione tra ideale e materiale, la relazione capitalistica è una unità contraddittoria.
Tale contraddizione non è quella tra capitalista e lavoratore (questo in realtà è semplicemente un conflitto): la contraddizione interna nasce dalla circostanza che “capitale” e “lavoro” pretendono entrambi di costituire l’intero della relazione che li implica. Ciascuno dei due lati rappresenta l’altro come differenza dentro di sé. Il capitale pretende di assorbire il lavoro nella forma del capitale variabile, in quanto, attraverso il salario, ha preso possesso del lavoro. Dall’altro lato, il lavoro vivo pretende che il capitale sia nient’altro che lavoro morto poiché, in quanto sorgente del valore, il lavoro aliena la propria sostanza. Dunque, il capitalismo è caratterizzato da una contraddizione nell’essenza. Comunque, il Capitale è il momento principale della contraddizione perché, attraverso questo rapporto realizza se stesso. Il lavoro salariato, invece, si nega nel produrre plusvalore. Il capitale è accumulazione continua; il lavoro continuamente ritorna alla sua mancanza di proprietà.
Dunque: da una parte, in quanto Idea hegeliana, il capitale pone se stesso come totalità chiusa; dall’altra parte, il sistema è aperto nella misura in cui l’opposizione non risolta tra capitale e lavoro gli è propria. Se la principale contraddizione del capitale è tra capitale e lavoro, allora il “capitale” compare due volte, una volta come tutto e una volta come parte. Se il fondamento sociale delle azioni degli agenti è costituito da questa totalità relazionale, allora il lavoro salariato, nel momento in cui è costituito dal rapporto di capitale, vi è pure anche negato. Quindi, è dentro e contro di esso come un tutto, non semplicemente implicato in una lotta parziale contro posizioni capitalistiche parziali.
Una conseguenza dell’inversione tra astratto e concreto, caratteristica del capitale come “Idea” che si rende attuale, è che all’interno della forma-valore il lavoro viene riconosciuto socialmente solo come astrazione di se stesso. E’ attraverso lo scambio che l’astrazione si comunica al lavoro, perché è la forma dello scambio che innanzi tutto stabilisce la sintesi sociale, prima che i lavori spesi possano esservi commensurati. Inoltre, l’astrazione è presente nella stessa produzione: il capitale tratta qui tutti i lavori come identici, dal momento che ha un pari interesse a sfruttarli indipendentemente dalle loro specificità concrete. Quando il capitale organizza il processo di produzione, il lavoro vivo occupato conta solo come trascorrere del tempo. Il lavoratore diventa la «carcassa del tempo», secondo l’espressione di Marx [dalla Miseria della filosofia, ndt].
E’ però un errore identificare il lavoro socialmente astratto, ovvero la sostanza del valore, con il preteso carattere “astratto” del processo di lavoro contemporaneo nella sua forma fisica. Il capitale ha di fronte un insieme di lavori specifici, inclusi nella loro totalità in modo astratto, ma i membri dell’insieme non mancano di specificità; persino il movimento più semplice ha qualche qualità, non può essere astrazione in quanto tale. Ovviamente, è necessario per il capitale che la forza-lavoro sia flessibile quanto basta per essere una totalità vivente a disposizione del capitale. Ma questa universalità concreta del lavoro è sussunta sotto la totalità astratta del capitale.
I postmoderni contestano la validità della categoria di “totalità”, implicando che Hegel e Marx avrebbero avuto torto nell’impiegarla: ma il punto è che entrambi riflettono – Hegel, non criticamente; Marx criticamente – la logica totalizzante del capitale che sussume sotto di sé ogni possibile contenuto.
Un’ultima conseguenza di questo modo di vedere il capitale è che gli stessi “molti capitali” esistono solo dentro un intero unitario. Preoccuparci esclusivamente di combattere manifestazioni particolari del capitale – siano essi la Ford, la Shell, o la McDonald’s – rischia di non tener conto di questa verità. Inteso in senso proprio, il nemico è il “Capitale”: perché il capitale è un potere sociale “totale”, logicamente prioritario rispetto ai suoi momenti individuali. Dire: “la malattia è il nemico” sembra grammaticalmente simile a “il capitale è il nemico”. Nella realtà, noi moriamo di malattie differenti, e dire “la malattia è il nemico” significa personificare un’astrazione. Non vi è nulla, in realtà, come “la malattia”, con la M maiuscola. Vi è solo una successione di malattie specifiche. Ma il “Capitale”, con la C maiuscola, esiste davvero. Dire “il capitale è il nemico” non è retorica.
traduzione a cura di Riccardo Bellofiore