Roma – «Tutti gli scenari sono possibili», continua a ripetere il leader della Cgil, Guglielmo Epifani. E, al di là dell’ottimismo che trapelava ieri sera da Palazzo Chigi, sulle pensioni non è esclusa davvero alcuna ipotesi: l’accordo, la rottura, il rinvio a settembre, fino al congelamento dello scalone di Maroni. Perché la querelle previdenziale si intreccia con la nascita del Pd, la crisi profonda di Rifondazione comunista, l’affanno dei sindacati. Oltre che – ça va sans dire – essere lo specchio dello scontro nella maggioranza tra riformisti e massimalisti e della fragilità del centro sinistra tra i banchi di Palazzo Madama. Tutto ciò è diventata la vertenza-pensioni. In gioco c’è il futuro del governo Prodi.
Al Consiglio dei ministri di questa mattina, il premier illustrerà le linee generali della proposta che sta ancora mettendo a punto. Parlerà di scalini, “quote” e lavori usuranti. Non dovrebbe entrare nei dettagli. Potrebbe farlo subito dopo, però, convocando i leader di Cgil, Cisl e Uil, Epifani, Bonanni e Angeletti. Un passaggio soloapparentemente semplice perché Prodi non può rischiare di ricevere un altro “no” dai sindacati. Dunque dovrà avere un sostanziale via libera prima di convocarli formalmente. Questo perché si dà per molto probabile il ricorso ad un “lodo”, prendere o lasciare, da parte del presidente del Consiglio. E per poter andare alla verifica conclusiva con Rifondazione comunista Prodi non può prescindere dall’assenso delle tre confederazioni.
A quel punto il destino dello scalone, ma anche del governo, sarà tutto in mano ai comunisti di Rifondazione. Fa parte della strategia di Palazzo Chigi. Da ieri gli sherpa del Prc hanno cominciato ad essere meno pessimisti. Le aperture ci sono state da parte di Franco Giordano e dei suoi, a cominciare dalla disponibilità ad accettare lo scalino da 57 a 58 anni per la pensione di anzianità, escludendo coloro che svolgono attività usuranti e anche chi matura 40 anni di contributi. Ma questa è la Rifondazione-dialogante, l’altra, quella “comunista-comunista”, è pronta a dare battaglia già al comitato politico convocato per sabato e domenica. “L’Ernesto”, una delle minoranze del partito, ha annunciato che presenterà un ordine del giorno nel quale si chiede «di non cedere sulla cancellazione dello scalone, anche se questo dovesse comportare la crisi di governo». Fosco Giannini è un senatore, il suo sarà uno dei voti decisivi: «O si cancella lo scalone o è crisi. Io sono d’accordo con la Fiom». Che, in questo caso è la Fiom di Giorgio Cremaschi, il dissidente per antonomasia, minoranza nella Cgil e ora anche in Rifondazione, dopo essere stato considerato il delfino di Fausto Bertinotti. Andrà anche lui al Comitato politico e ha deciso di parlare perché –dice – «siamo di fronte al totale fallimento di un gruppo dirigente e della sua linea politica. Al punto in cui siamo Rifondazione non è in grado di rompere perché andrebbe in crisi il governo, né di fare l’accordo perché i militanti non capirebbero. Che farà Rifondazione?». Lo scontro nel partito di Bertinotti è radicale e questo aiuta a capire la crescente insofferenza della Cgil nei confronti dei veti che arrivano da Via del Policlinico, dove sta la sede del Prc. «Rifondazione sta in piedi – dicono a Corso d’Italia – solo perché ha alzato la bandiera dello scalone».
Dunque si devono studiare altre vie di fuga, considerando che un accordo che possa piacere alla minoranza di Prc non avrebbe l’assenso di Lamberto Dini e degli altri senatori moderati. E allora non si può escludere il rinvio a settembre, anche perché lo scalone finirà comunque nella Finanziaria. Nelle discussioni, poi, torna a fare capolino l’ipotesi di un congelamento per un anno (la proposta è del bertinottiano Alfonso Gianni) della contestata norma MAroni, ma anche l’ultimo drammatico scenario: lo scalone resterà.