«E’ peggio del Kippur». Ma ad Haifa arabi ed ebrei continuano a parlare

Nessuno sente la prima sirena al mercato di Talpiot. All’improvviso il boato. Ci si guarda intorno sgomenti. Poi il secondo. Che fare? Uscire e dirigersi un rifugio? Chi dice di riparasi dietro un muro, chi scappa, chi resta bloccato per la paura. Si sente la terza esplosione. I razzi sono caduti qui intorno. Questo è certo. La sirena del cessato allarme provoca una corsa forsennata verso le auto e la raccolta frettolosa di tutto quello che si trova su banchi e scaffali. Normalmente di venerdì in questo mercato c’è il triplo delle gente, questo raccontano i venditori di frutta e verdura. I pochi acquirenti che sono in giro sono arrivati da diverse zone della città. I negozi sono chiusi e chi è rimasto ad Haifa deve pur fare provviste. Dopo un giovedì trascorso senza cadute di razzi, in molti hanno creduto che, come annunciato dai portavoce militare, la capacità offensiva di Hezbollah era stata messa in ginocchio grazie alla massiccia offensiva in corso in Libano. Le macerie dell’ufficio postale di Kikar Mashrik, fortunatamente chiuso, colpito durante il primo dei numerosi attacchi di Hezbollah sulla terza città di Israele, scaraventate a metri di distanza, come i vetri dei negozi nel perimetro della piazza, e le minuscole sfere di metallo contenute nella testata, in grado di schizzare in ogni direzione dal luogo dell’esplosione, hanno riportato tutti alla realtà. Israele è in guerra. Le bombe sono il prezzo da pagare per vincerla. Su questo concordano i cittadini ebrei di Haifa. La guerra deve continuare fino alla morte di Nasrallah. «Vengo qui tutti i giorni a bere il caffè» racconta Toni Karam, tra i vetri rotti del Caffé Nizza di fronte all’ufficio postale circondato da polizia, artificieri, televisioni e fotografi. I pochi cittadini di Haifa che erano in giro si affrettano verso casa, o caricano l’auto per andare dai parenti a Tel Aviv.
«Mi dispiace per i morti civili in Libano, ma è Nasrallah che ci ha attaccato. Noi dal Libano ce ne eravamo andati. Questa è gente che vuole distruggere Israele. E chiama il suo partito il partito di Dio. Non abbiamo scelta questa guerra deve continuare e questa volta fino ad annientarlo».

Anche Meir il barista si dice dispiaciuto per i morti libanesi, ma come i suoi amici è convinto che non ci sia scelta. Bisogna continuare a combattere. Il sindaco di Haifa, Yona Yahav, (Kadima, ex partito laburista e Shas), accorso sul luogo dell’esplosione, sui civili libanesi risponde che «hanno dato rifugio ai terroristi nascondendoli tra di loro». Poi ci spiega che questo è un nuovo tipo di guerra in cui Israele è colpita con strategie terroristiche che mirano ad alzare il tiro, come dimostrato dalla frammentazione delle testate in cui sono contenuti metalli in grado di potenziare la capacità dei missili stessi.

Mentre ancora si raccolgono vetri e si ripuliscono le strade dai detriti delle prime tre esplosioni, risuona il secondo allarme. Chi è in auto si ferma. Le istruzioni sono di ripararsi dietro i muri, per evitare di essere colpiti dai frammenti di metallo contenuti nelle testate.

Uno dei missili ha colpito un edificio in collina. All’ottavo piano del numero 24 di Via Leon Blum, la palazzina residenziale con diverse scalinate, piccoli appartamenti con vista sul mare, la famiglia Lebefarb non è scesa nel rifugio. Il Signor Alexander, in Israele dal 1971, è costretto su una sedia a rotelle. La figlia Maya, 27 anni, ci racconta di avere visto alla televisione le immagini del suo palazzo e di essere corsa a casa. «Non ho capito più nulla. So che papà non può scendere nel rifugio. Non ci andiamo nemmeno io e mia madre, ci mettiamo nella tromba delle scale. Se dobbiamo morire, moriremo tutti insieme». Nel piccolo appartamento in cui, nonostante lo shock per il missile caduto nell’appartamento della scala 22, vuoto perché gli abitanti erano nel rifugio, la signora Eden insiste per preparare un caffé, ci sono anche tre cani. «Uno è di mia sorella, racconta ancora Maya, lei se n’è andata a Gerusalemme e ce lo ha lasciato». I Lebefarb raccontano di avere vicini arabi e di andare d’accordo con loro. Per questo non capiscono perché tanto odio verso gli ebrei. «Gli abbiamo dato tutto, lavoro, istruzione. Cos’altro dobbiamo fare? Non possiamo vivere con questa paura», continua Maya che sta per laurearsi in Storia e che sottolinea che ad Haifa non ci sono problemi con gli arabi, si va negli stessi posti, si studia nelle stesse scuole. «Io invece non ho paura» dice suo padre, «ho fatto la guerra dello Yom Kippur e la prima guerra del Libano. Noi siamo ebrei e non abbiamo un altro posto in cui andare. Non importa quello che pensano di poterci fare. Israele era, è e sarà».

Fino al pomeriggio di ieri i feriti degli attacchi dei Katyusha sono stati almeno trenta, due dei quali in gravi condizioni ed in una città vuota, dove si cerca di non allontanarsi dai rifugi. Nel pomeriggio arrivano altri due allarmi aerei. Altre esplosioni.

Chi aveva fatto le provviste al mercato di Talpiot ieri mattina avrà stipato il cibo non deperibile nei rifugi situati nei sottoscala.

Dalle conversazioni della mattina con le persone che facevano la spesa e con i venditori, arabi ed ebrei, la sensazione prevalente è che Haifa sia effettivamente la città della convivenza, in cui si vive e si lavora fianco a fianco, ma che la visione di questo scenario di guerra in cui questa città è precipitata, che non è paragonabile, come raccontano tutti «nemmeno ai tempi della guerra dello Yom Kippur», cambia completamente a seconda che si parli con cittadini arabi o ebrei. Il fruttivendolo arabo con la moglie libanese, che dietro al banco con le melanzane e i pomodori tiene esposta la bandiera Israeliana «Vivo qui, la gente compra da me, che devo fare?», afferma, «certo che non sono d’accordo con l’operazione in Libano. Ho sentito quello che ha detto Nasrallah ad al-Arabia. Israele deve negoziare e liberare i prigionieri». L’anziana ed elegante dalla carnagione chiara ed i capelli tinti di nero che insieme al marito sceglie i pomodori segue la conversazione, visibilmente arrabbiata, ci chiede se parliamo solo con gli arabi. «Io ho settant’anni. Sono polacca, vengo dall’Olocausto. Ho visto tutte le guerre. Mio marito le ha fatte. Ma non avrei mai immaginato di dover vedere anche i miei nipoti continuare a combattere. Gli abbiamo dato tutto. Le scuole, i diritti. Ma loro ci odiano. Hanno sempre pronto il coltello per colpirci alle spalle. Il corano non è cattivo, lo hanno reso cattivo loro. Sì ci sono anche persone intelligenti tra gli arabi, ma la maggioranza ci odia».

Al banco del pesce arabi ed ebrei scherzano. «Che chiedi a fare a questo qui, è arabo che vuoi che ti dica» dice il giovane Kazako arrivato in Israele negli anni ’90. I punti di vista contrapposti, discussi in questo mercato, sfociano in una discussione, magari animata, ma non nello scontro. Ad Haifa ebrei ed arabi vanno negli stessi caffé, anche se, questi ultimi, dichiarano di sentirsi cittadini di serie B. Una condizione suffragata dai rapporti annuali del Mossawa Center (centro per i diritti civili dei cittadini arabi d’Israele). Nel tardo pomeriggio di ieri l’allarme è risuonato altre due volte. Ciononostante alcune donne della “coalition of women against the war” hanno manifestano la propria opposizione a questa guerra nella zona del Monte Carmelo, dove sono assiepate le troupe televisive. Come hanno fatto tra l’una e le due del pomeriggio le donne in Nero, rimaste in Ben Gurion Avenue, mentre le bombe, non stelle cadenti, s’infrangevano sulla terra ad Haifa.