«È l’ora della terza intifada»

«Intifada, vogliamo la terza Intifada». Per le strade di Gaza, attraversate da ondate di rabbia e dolore per il massacro di Beit Hanoun, ieri erano in tanti ad invocare una nuova rivolta palestinese contro l’occupazione israeliana. Adulti, giovani e donne con la disperazione scritta in volto, convinti che non esista altra soluzione per mettere fine alle sofferenze dei palestinesi, rinchiusi nell’enorme prigione a cielo aperto di Gaza e soffocati dal muro, da centinaia di posti di blocco, sbarramenti e recinzioni in Cisgiordania. E il fermento non poteva non raggiungere anche la Cisgiordania dove da mesi non si registravano scontri tra forze di occupazione e manifestanti palestinesi. Persino Gerusalemme est – rimasta lontana dalle cronache insanguinate di questi ultimi anni – osserva da ieri sera i tre giorni di lutto per le vittime di Gaza, proclamati dal premier Haniyeh. «Meglio morire da martire (attentatore suicida, ndr) che rimanere prigioniero tutta la vita», diceva ieri Mansur Yazji, 22 anni, di Jabaliya, venuto a dare una mano ai soccorritori al lavoro a Beit Hanoun. «O noi o loro (gli israeliani), questo è il punto. Sono pronti a massacrarci tutti, anche i bambini, non li vogliamo nella nostra terra, li cacceremo via», aggiungeva Samer, un altro giovane giunto sul luogo della strage pochi minuti dopo il cannoneggiamento israeliano. Frasi dure, risultato della rabbia e della disperazione, ma ormai comuni a tanti palestinesi di Gaza che non credono più a un compromesso politico con Israele.
«Occorre restare uniti per rispondere alla strage di Beit Hanoun», ha esortato i suoi connazionali Abu Mazen durante una conferenza stampa a Ramallah. Ha anche promesso fondi immediati per la ricostruzione della cittadina devastata dall’ultima operazione israeliana. Ma in casa palestinese non sono queste le ore per la moderazione che piace al presidente e anche l’accordo per un governo di unità nazionale, dato ormai per fatto, si allontana assieme all’idea di Abu Mazen di poter tornare al tavolo delle trattative con Israele una volta messo in soffitta il governo di Hamas (così gli suggeriscono i suoi consiglieri). A dettare la posizione palestinese sono in realtà le dichiarazioni militanti di Hamas che ai palestinesi risultano più credibili delle promesse di cambiamento fatte da Abu Mazen sulla base di vaghe assicurazioni ricevute da Usa e Unione europea. «L’assenza di prospettive politiche concrete, a causa dell’unilateralismo e del militarismo sfrenato di Israele, sta indebolendo Abu Mazen, sempre più irrilevante agli occhi della popolazione, e creando le condizione per una terza Intifada. Di fronte a ciò è deprimente e, soprattutto, preoccupante il silenzio della Comunità internazionale», ha detto commentato Jamal Zakut, un noto esponente della società civile di Gaza, sottolineando che americani ed europei non stanno aiutando il loro alleato Abu Mazen, al contrario lo affondano con le loro politiche contro i palestinesi.
Hamas intanto continua a rafforzarsi, grazie anche alle operazioni militari israeliane. Ieri il leader in esilio del movimento islamico, Khaled Meshaal, da Damasco ha minacciato Israele di rappresaglie durissime e, più di tutto, ha parlato da leader di fatto dei palestinesi. Abu Mazen presidente rischia di ruminarlo solo nelle stanze del suo quartier generale a Ramallah perché nelle strade comanda sempre di più Hamas.