Camminiamo con Luigi Manconi sulle macerie della guerra dei lavavetri. Macerie ancora fumanti, per le bombe che da molte parti sono state sganciate su obiettivi che, ci pare proprio, non richiedevano tanto accanimento. «Sociologia d’accatto», «vecchi vizi della sinistra a rendersi prigioniera dell’ideologia»…
«Di ideologico – dice Manconi – io vedo soprattutto la formula “tolleranza zero”; e poi quel “la legalità non è né di destra né di sinistra” che, da trent’anni, è un evergreen del repertorio retorico dell’eroica pattuglia degli sfondatori di porte aperte. E infine “la repressione è un tabù per la sinistra”. Ma come? E è da decenni che vedo azioni repressive delle sinistre di governo, in Italia e nel mondo: talaltra motivatissime, talvolta totalmente insensate. Insomma, mi preoccupa assai più la cultura espressa da quegli slogan che i singoli discutibili provvedimenti anti-criminalità. E infatti la politica e la comunicazione politica si giocano innanzitutto sull’agenda delle priorità. In Italia, ci sono minori stranieri sfruttati, schiavizzati, abusati; e ci sono prostitute bambine soggiogate e brutalizzate: su questo ha ragione Giuliano Amato. Ecco un importante tema su cui mobilitarsi con strumenti normativi e mezzi repressivi. Perché non partire da qui, anche sul piano della comunicazione?»
Bella domanda. Perché non si è partiti, non si parte, da qui?
«Innanzitutto, una premessa. Sono un sociologo, un militante politico, un membro del governo. Vorrei, se è possibile e fin quando è possibile, non dover rinunciare ad alcuna di queste condizioni. In particolare, da membro del governo, ho in terribile uggia quei miei colleghi che intendono il fatto di essere “di lotta e di governo” alla stregua dei soprabiti doublé face di una volta: da un lato impermeabile, dall’altro spolverino. Ovvero: un giorno seduti sugli scranni dell’esecutivo nell’aula di Camera e Senato e, il giorno dopo, davanti alla medesima Camera e Senato a urlacchiare, paonazzi in volto. Dunque, i legittimi e, talvolta, utilissimi dissensi vanno manifestati nelle sedi adeguate (e, se posso dire, nei modi adeguati); e se quei dissensi diventano poi insuperabili, la sola via è quella delle più dignitose dimissioni».
«A questa impostazione – prosegue Manconi – mi sono attenuto finora, esprimendo le mie (qualche volta profonde) divergenze dalla politica del governo con i giusti interlocutori e nelle sedi ac-conce. E, allora, quanto accade in questi giorni a proposito delle strategie in materia di sicurezza non mi porta ancora a una posizione di drastico dissenso, ma certamente mi ispira forti preoccupazioni: appunto, come membro del governo, come militante politico e, infine, come sociologo».
“D’accatto” anche lei?
«Mi riferisco alla qualifica di sociologo perché, nelle polemiche di questi giorni, è stato tirato in ballo quell’argomento classicamente reazionario che indica nella “sociologia” e nella “filosofia” la ragione principale dell’obnubilamento della sinistra a proposito della “questione criminale”. Ma via Premesso che raramente mi è capitato di sentire una formula più grottescamente simil-sociologjca e simil-filosofica del richiamo alla “tolleranza zero”, c’è nulla di meno pragmatico, operativo ed efficace? Dunque, va sgombrato il campo da un primo e colossale equivoco. E da cent’anni che non si sente e non si legge un politico o uno scienziato sociale che attribuisca alla “povertà” o ad altre condizioni materiali la sola o la prima e nemmeno la principale causa della criminalità (grande, media o piccola). Tuttavia, la questione del contesto sociale – per italiani e stranieri, per sotto-proletari e finanzieri – vale, eccome, e va tenuta nel debito conto (e non a caso, i nostri codici prevedono che la si consideri sotto la specie delle attenuanti): ma non spiega, va da sé, il problema. Se questo è vero, il ragionamento oggi dominante va completamente rovesciato. Penso molto seriamente che solo una impostazione tutta ideologica, incapace di misurarsi con la realtà, possa aver consentito di trattare la questione detta “dei lavavetri” nel modo in cui rovinosamente è stata trattata. Grazie al cielo, fu esattamente vent’anni fa, che, con Laura Balbo, iniziammo a scrivere che la società “multi-etnica” non rappresentava una meta radiosa bensì una prospettiva inevitabile, ricca di opportunità ma ancor più carica di fatiche e sofferenze (carta canta tre libri e decine
di articoli). Dunque, accertato che il “tasso criminale” tra gli stranieri regolari è assai contenuto, non c’è il minimo dubbio che vi sia un numero significativo di immigrati irregolari usi alla violenza e affiliati ai racket; e concedo (seppure con una certa fatica) che la loro percentuale sia maggiore di quella presente tra i parlamentari e i commercialisti, ma cosa ha a che vedere ciò con la “questione dei lavavetri”? Dicevo che l’impostazione oggi dominante, anche a sinistra e nel governo, mi appare tutta ideologica e capace di produrre ulteriore cattiva ideologia. Per capirci: come è stato possibile consentire che il problema dell’immigrazione – nel linguaggio corrente, nel sistema mediatico e in una parte ampia del senso comune – si riducesse a (e si identificasse con la) questione criminale? E qui che, appunto, la partita si gioca tutta sul piano del senso comune e della percezione collettiva e, dunque, dei messaggi che contribuiscono a formare l’ideologia condivisa».
Ma non può essere solo questione di percezioni…
«No, certo. Un programma di integrazione degli stranieri e di regolarizzazione degli irregolari non criminali deve prevedere – è l’ovvietà più ovvia del mondo – anche la repressione di quanti non intendono integrarsi e di quanti esercitano violenza o comunque attività criminale. Ma certo che “la legalità non è ne di destra ne di sinistra” (banalità che viene presentata come l’ultimo grido della politica o come una raffinatezza che nemmeno Coco Chanel): ma non è questo il paradigma più futile del “filosofeggiare” in materia di sicurezza? Ma davvero Giuliano Amato, persona che mi è cara e che stimo assai, ritiene che la sinistra diversa da lui pensi che se qualcuno delinque è “sempre e comunque colpa della società”? E sono della sua opinione Leonardo Domenici, amico e ottimo sindaco, e Graziano Cioni, col quale firmai la prima proposta di riconoscimento delle unioni civili del parlamento italiano? Personalmente credo nella responsabilità individuale e nella disponibilità umana al male (per i cattolici, il peccato originale) e penso, tuttavia, che adeguate politiche pubbliche possano contribuire a ridurre i fattori di agevolazione che concorrono a determinare la disponibilità a delinquere di immigrati e finanzieri. Ripeto ancora, pertanto, che mi interessano meno per ora le singole proposte normative, e mi preoccupa assai più come le si comunicano, le si spiegano, le si applicano. Infine, un esempio edificante (e non perciò meno autentico e meno istruttivo). Vent’anni fa, a Roma c’erano come adesso centinaia di lavavetri. Nel frattempo, tra quegli stranieri si è certamente insediato uno o più racket: ma altrettanto certamente è avvenuta una piccola “rivoluzione professionale”: una quota, purtroppo modesta, di quei lavavetri si sono trasformati in strilloni (venditori ambulanti di giornali), ripristinando un mestiere scomparso da decenni. Negli stessi luoghi della città, agli stessi incroci, sugli stessi marciapiedi, gli stessi stranieri vendono i giornali agli automobilisti. Indossano pettorine con scritto sopra il nome del quotidiano, sono distribuiti in maniera razionale nella città, offrono un servizio utile ai cittadini, alle case editrici e a loro stessi. Non sono tanto sciocco da sopravvalutare le dimensioni del fenomeno, ma si tratta in ogni caso di una innovazione nel mercato del lavoro, che ha creato una nuova mansione e ha integrato un certo numero di stranieri: e ha ridotto, di conseguenza, l’area della marginalità e – si può immaginare – anche della microcrimi-nalità (seppure in percentuali assai ridotte). Forse che questo rende meno necessaria la repressione di quanti, invece, continuano a delinquere? Certo che no, ma aiuta a comprendere come le politiche
pubbliche, e quelle criminali in particolare, debbano rispondere a criteri, appunto, politici. E questo vale per tutte le politiche pubbliche relative a grandi contraddizioni sociali. Negli ultimi mesi i suicidi in carcere sono ripresi con una certa frequenza. In termini assoluti siamo al di sotto dei dati degli anni passati e, in rapporto alla popolazione detenuta, la percentuale non si discosta da quella consolidata. Eppure sono segnali da non sottovalutare. Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha disposto la riorganizzazione e il rafforzamento del servizio di accoglienza e prima assistenza e ha avviato una minuziosa ricerca sugli atti di autolesionismo in carcere; ma il punto è che su questo delicato crinale si gioca la tollerabilità, e, dunque, la legittimità della pena detentiva. E allora, l’aumento dei suicidi va messo in relazione all’incremento della popolazione detenuta tra i 500 e i 1000 detenuti in più al mese. Siamo stati i primi a dirlo: l’indulto, per non essere una misura-tampone, va accompagnato da una maggiore cautela nel ricorso alla pena detentiva. Va accompagnato, cioè, dalla riforma delle leggi penali inutilmente vessatorie, in modo particolare di quelle che trattano le manifestazioni di marginalità sociale. Il governo, assai opportunamente, ha proposto una riforma organica della disciplina sull’immigrazione, la Bossi-Fini, che può ridurre la criminalizzazione degli stranieri irregolari. Se il parlamento riuscisse a esaminarla e approvarla in tempi celeri, l’intero sistema della sicurezza potrebbe trarne grande beneficio».