E’ la paura degli anni Settanta che ha fatto nascere il veltronismo?

Sciascia per esempio, Arbasino, o Sanguineti, Volponi, Natalia Ginzburg: gli scrittori italiani più importanti che negli anni ’60, ’70 decidevano di impegnarsi direttamente, professionalmente, in politica. Nel 1980, una data emblematica, qualcosa è cambiato. Per fare un esempio, Calvino capisce che la figura di “intellettuale impegnato” che fin allora ha inseguito come modello, ha segnato il passo, raccoglie i suoi saggi composti dal ’55 e pubblica proprio in quell’anno Una pietra sopra, il sigillo a una lunga esperienza, conclusa.
Una generazione almeno è passata e oggi l’evento inedito e molto indicativo è La scoperta dell’alba di Walter Veltroni. Un politico al massimo del suo riconoscimento manda alle stampe un’opera di fiction, un romanzo (come ribadisce la copertina Rizzoli) e arriva subito primo in classifica. In sé l’episodio non sembra un’anomalia: Veltroni stesso ha sempre cercato di ritagliarsi un’attività parallela di operatore/divulgatore culturale (dalle recensioni dei film per il Venerdì) e ha già pubblicato altre opere di narrativa (una biografia di un jazzista, un paio di racconti ispirati alle storie dei desaparecidos argentini). E d’altra parte gli editori pare che non aspettino altro che professionisti affermati in altri campi si dedichino alla letteratura tout-court: cantautori, giudici, prefetti, comici, presentatori televisivi, che appunto scrivano non solamente libri di memorie, ma romanzi.

Il libro di Veltroni si inserisce così (anche suo malgrado) perfettamente in quella strana sfera gassosa che è il contesto culturale e politico oggi in Italia (un paese dove, per dire, la direzione dei programmi culturali della tv nazionale è ancora affidata a Gigi Marzullo). Il pensiero che la letteratura abbia una sua autorevolezza autonoma, una sua specificità, delle sue regole da imparare e sperimentare prima contro se stessi e poi rispetto a un editore e un pubblico di lettori magari indulgenti, non sfiora minimamente diversi autori. Ed è un peccato perché quello che ne viene fuori sono libri che queste regole ignorano, che quest’autonomia non considerano, mentre dichiarano della letteratura e in generale dell’arte un’idea reverenziale, feticistica.

Ma andiamo con ordine: quali sono i difetti principali della scrittura della Scoperta dell’alba? 1) La mancanza di differenziazione dei personaggi, che parlano tutti con una lingua media bassamente lirica, anagraficamente irriconoscibile; 2) la ridondanza del discorso: nella scena madre Giovanni Astengo, il protagonista, torna alla sua casa di campagna e compone il suo vecchio numero di telefono di quand’era bambino, riuscendo a parlare con se stesso. Lo stupore è così descritto: «Non riuscivo a parlare, il cuore mi esplodeva e un insopportabile disordine mi aveva invaso. Respirai profondamente, pensai che tutto questo non aveva senso»; 3) l’incapacità di dar corpo ai personaggi e di gestirli nel tempo. Il romanzo è molto breve (viene chiamato eufemisticamente romanzo un testo di circa 140.000 battute che in una normale gabbia editoriale sarebbero equivalse a 50, 60 pagine e non a 150) e quindi i caratteri non hanno tempo di svilupparsi. I conflitti con i quali si trovano ad avere a che fare vengono presentati per essere, a distanza di poche pagine, evitati più che risolti. Esempio: la figlia di Giovanni, Stella è una bambina down. I genitori – si dice anche se non si vede – ne soffrono, e il fratello sente il peso di una responsabilità eccessiva, ma è buonissimo e la porta in vacanza con sé negli States. Lì trova Stella insopportabile, capricciosa, e chiede aiuto ai genitori, che nel giro di qualche pagina prontamente arrivano.

Se si può riassumere in un’evidenza, il difetto principale di Veltroni è l’applicazione di una retorica specificamente politica all’ambito letterario. L’ignoranza di quel monito cardinale di qualsiasi scrittore, la frase che si ripete a buffo nei corsi di scrittura: Show! Don’t tell!; non dire, mostra; non dichiarare, metti in scena. Lo stupore, la rabbia, il conflitto padre-figlio, il senso di inadeguatezza a essere genitori di una bambina down, ogni sentimento dovrebbe in un romanzo essere declinato in azione, dialoghi, descrizioni, in una costruzione che renda quei sentimenti, e non li enunci. Mentre, sempre generalizzando, la retorica politica richiede proprio l’opposto: la chiarezza, l’immediata corrispondenza tra parola e riferimento, la psicagogia ottenuta attraverso anche la ridondanza: il piano non simbolico insomma.

Questa differenza tra i piani del discorso Veltroni sembra non ignorarla affatto, e anzi – per una strana forma di ingenuità – pare dichiararla anch’essa più volte all’interno dello stesso romanzo. Tante volte quante manifesta la sua reverenzialità nei confronti dell’arte e del genio in generale, sempre descritti come mondi modello, ma inattingibili, sacri e misteriosi, e mai come ambiti professionali, dove l’arte è appunto anche mestiere o professione. «Mi innamorai della figura di un genio della matematica che si chiamava Paul Erdös. Mi piaceva la religiosità del suo rapporto con i numeri» (pag. 20); «Un film brasiliano, di un regista geniale e pazzoide che si chiamava Glauber Rocha» (pag. 33); «C’era Moby Dick, che avevo letto lì, gustandolo settimana per settimana, con l’ansia di ritrovarlo. Quel luogo d fuga, con il tempo sospeso, mi sembrava inconsapevolmente l’unico dove avesse senso condividere la ricerca di Ismaele, la caccia alla balena, alla sua ambiguità, al suo essere meravigliosa e terribile, vulnerabile e inattaccabile» (pag. 54). E ancora il suo omaggio infinito a Italo Calvino, nume tutelare del figlio che divora tutti i suoi libri, ma non in quanto scrittore. Esplicitamente: «Lorenzo, nel mostrarmi queste frasi, sorrideva. Era la conferma della sua opinione. Che, cioè, Calvino non fosse uno scrittore, ma che il suo universo, generosamente divulgato, fosse un modo per intendere e attraversare la vita, un catechismo a posteriori». Se è vero che sono frasi scritte in buona fede, in un romanzo, messe in bocca a un ragazzo, è vero anche che sottilmente denunciano un’ideologia della post-letteratura che fa il paio con quella berlusconiana della post-politica.

L’omaggio sperticato alla tradizione della letteratura è l’opposto del confronto e dell’attrito con la tradizione. Anche qui quello che in politica, soprattutto nell’amministrazione di una città funziona ed è spesso debito (intitolare strade, piazze, mercati ai nomi del passato) non vale nel corpo di un romanzo, ma fa l’effetto di una continua epigrafe, di una scrittura che cerca altrove i piedistalli per la propria autorevolezza. E facendo questo, rende sterile la portata culturale di un romanziere. Dove per cultura almeno io intendo la capacità critica, soggettiva, idiosincratica rispetto al mondo. Veltroni sembra avere invece – e anche qui non la nasconde – un’idea di utopia diversa. Sempre utilizzando il modello Calvino, dice: «Se si intende, naturalmente, che la vita sia vissuta non per per se stessi, che è poca cosa, ma per fondersi in mille altre vite. Per essere sempre tanti e non essere mai soli, anche quando lo si è» (pag. 35). Questa meravigliosa definizione della condivisione deve però calcolare la dialettica, l’antitesi, verrebbe da suggerire a Veltroni, e non proclamare una sintesi già avvenuta o immediata. A sua giustificazione sembra esserci sempre la buona fede. E’ come se Veltroni non vedesse o non volesse accettare l’opposizione inconciliabile.

Cosa resta di questo libro allora? Una testimonianza fondamentale, nelle ultime pagine, dove Giovanni Astengo scopre il motivo per cui il padre sparì anni e anni fa: era un terrorista. Si è dato alla clandestinità. Alla fine di un romanzo famigliare pieno di aggettivazione edulcorata, di tantissimi “lieve” e “intenso”, le ultime pagine sono uno stacco deciso, e spiazzano di netto. Rispetto al mondo svagato che c’è stato narrato fino all’ultimo dove le albe si susseguono come un sogno continuo e i conflitti sfumano per evaporazione, la scoperta da parte del protagonista di avere un padre assassino trascolora il tono del romanzo. E la questione che ne scaturisce (proprio per la creazione e la fruizione di questo libro come oggetto politico) si riapre direttamente come un’altra questione: qual è il valore politico della Scoperta dell’alba? Il cosiddetto “veltronismo”, quella pratica della politica che non accetta una lettura di classe delle conflittualità e che in genere soffoca proprio le conflittualità invece di rispettarle in nome della loro alterità, è forse il frutto obbligato della grande ferita politica degli anni ’70, cicatrizzata sì ma solo in superficie?