È la deindustrializzazione ad affossare gli Stati uniti

Ci stanno facendo la testa come un pallone con la favola che l’invecchiamento della popolazione è incompatibile con l’attuale sistema pensionistico, non importa se ci troviamo in Europa, in Australia oppure negli Stati Uniti. Ovunque è la stessa solfa, vero pensiero unico, volta a trasformare i contributi pensionistici in fondi perduti per il capitale finanziario.
Sull’International Herald Tribune, qualche settimana fa, è apparso uno stupendo articolo sullo stato delle città Usa ove l’attività principale era la produzione delle auto («A town in danger of dying out as GM falters», di Jeremy W. Peters e Micheline Maynard). Il pezzo smitizza la favola nei fatti. Nel comparto dell’automobile la deindustrializzazione è stata così forte che, nelle città in cui il settore era predominante, i lavoratori pensionati tendono a superare per numero quelli occupati nel settore stesso. Durante gli anni del boom postbellico e specialmente nelle alte fasi keynesiane della guerra di Corea e del Vietnam i dipendenti di molte industrie portanti ottennero buone condizioni riguardo le prestazioni mediche e le pensioni, che negli Usa vengono incluse nei contratti di categoria essendo pagate della imprese. Nel caso dell’auto, il calo nel rapporto numerico dipendenti-pensionati comporta delle difficoltà da parte delle imprese ad erogare le pensioni correnti, perché queste sono generalmente sostenute da un prelievo sulla massa salariale occupata nelle aziende del settore. Inoltre l’attività economica ed occupazionale nel terziario di queste città viene a dipendere in misura crescente dalla domanda effettiva generata dalla spesa dei pensionati, piuttosto che dai lavoratori in produzione.
I due giornalisti osservano giustamente che quando i pensionati del settore si assottiglieranno per morte naturale l’intera struttura economica dei servizi e del commercio di queste città entrerà in una crisi senza ritorno. La crescita dei servizi non è stata pertanto sostitutiva alla deindustrializzazione; questa è una prima ed importante conclusione che si può trarre dall’eccellente reportage del New York Times (riprodotto appunto dall’Herald Tribune).
Una seconda conclusione riguarda il fatto che le pensioni contribuiscono alla domanda; la loro scomparsa o riduzione si ripercuote negativamente sull’economia circostante. La difficoltà a finanziarle non deriva, nel caso in considerazione, da fenomeni demografici bensì dalla deindustrializzazione galoppante negli Usa e dal conseguente passaggio di una quota crescente di lavoratori verso occupazioni povere e mal pagate.
Alla fine di febbraio è stato pubblicato dal governo di Washington l’Economic Report of the President 2006, la cui parte più interessante è sempre costituita dalla rodata appendice statistica. Sebbene con alterne vicende, l’occupazione nell’industria manifatturiera americana nel 1979 raggiunse 19 milioni e mezzo di persone, il più alto livello riportato dalla pubblicazione. Il calo quindi era principalmente relativo all’occupazione totale. Dal 1980 il calo nel manifatturiero diventa assoluto e nel 1990 il numero di occupati nel settore scende a 17 milioni e settecentomila unità mentre, nello stesso decennio, l’occupazione totale aumenta da 90 a 108 milioni di persone. E’ in questo periodo che si verificano due fenomeni di capitale importanza: uno nell’economia internazionale e l’altro nei rapporti di classe negli Usa. Da un lato esplode il deficit estero statunitense e dall’altro si abbassa considerevolmente il salario reale, conseguenza diretta del calo patologico dei posti di lavoro buoni in favore di quelli cattivi nelle varie branche dei servizi, come personale delle pulizie ecc.
Durante gli anni Settanta i salari reali Usa, misurati in dollari 1982 e calcolati su base settimanale, erano rimasti piuttosto statici, così che nel 1979 erano di circa 299 dollari rispetto ai 313 del 1970. Tale diminuzione non era però principalmente dovuta al calo dei salari reali orari, bensì alla riduzione delle ore lavorate legata anche alla fine della crescita prodotta dalla manna keynesiana nota come guerra nel Vietnam.
Ma nel periodo 1980-90 calano sia i salari orari che i guadagni settimanali. Quest’ultimi scendono a 263 dollari, a prezzi costanti 1982. Nel periodo clintoniano, unitatamente alla bolla delle dotcom – che implicava anche una notevole attività manifatturiera nell’elettronica – vi fu un rallentamento del calo occupazionale nel settore manifatturiero, limitato ad alcune centinaia di migliaia di unità. Ma solo negli ultimi tre degli otto anni di presidenza Clinton avvenne un’inversione nella tendenza al ribasso dei guadagni reali settimanali che è continuata fino al 2002, raggiungendo il livello di 279 dollari settimanali, sempre molto lontano dai 313 del 1970.
Niente paura. I salari Usa non sono però destinati ad aumentare, i Giavazzi workers, cioè tassinari poveri che guidano autopubbliche sgangherate a New York, domineranno. Le paghe reali settimanali hanno ripreso a calare e dal 2001 l’occupazione manifatturiera ha ricevuto una tale botta che le sarà impossibile sollevarsi. Le stime per il 2005 danno 14 milioni e 279 mila occupati nel settore manifatturiero, cioè 3 milioni in meno rispetto al 2000. Questa caduta non è fisiologica bensì patologica e comporta tanto un deficit estero incontrollato – e la conseguente pressione sul resto mondo affinché lo finanzi a scapito del finanziamento dei paesi poveri che invece, Africa inclusa, devono contribuire ad un deflusso di capitali verso gli Usa – quanto l’impoverimento neanche tanto relativo dei lavoratori statunitensi.