E il dollaro «soffre»

Una delle regole più antiche del mercato capitalistico recita che quando tutti vanno nella stessa direzione «è arrivato il momento di andare in un’altra». Una regola in genere duramente pagata dal «parco buoi» – così vengono chiamati i piccoli risparmiatori – che arriva a investire in borsa sull’onda di record prolungati e altamente enfatizzati dai media.
Quello presente è stato fino a ieri un momento di grande euforia sui mercati finanziari; e le borse hanno registrato negli ultimi anni cospicui aumenti. Wall Street ha fatto segnare in questo mese nuovi record assoluti dell’indice Dow Jones (non del Nasdaq, però, ancora sotto il 50% rispetto ai livelli raggiunti nel 2000, poco prima l’esplosione della «bolla» della new economy). Le giustificazioni non mancano. Il livello dei profitti incamerati dalle imprese sono anch’essi a livelli record (+18% quest’anno, dopo il +19 del 2005 e il +20 del 2004); un indicatore che gli «investitori» istituzionali hanno ripreso a considerare decisivo nel soppesare lo stato di salute delle aziende e che ha raggiunto per la prima volta i livelli del 1929 (prima del big bang, ovvio).
Ma. Gli «investitori» speravano anche in un prossimo taglio ai tassi di interesse Usa, ormai al 5,25%. Per convincere il presidente della Fed, Ben Bernanke, è però necessario che l’inflazione resti «fredda». E invece, ieri, è arrivato il dato sui prezzi alla produzione nel mese di novembre: +2%. Un incremento – in un solo mese – che non si vedeva dal 1974. Anche depurato delle componenti «volatili» (energia e generi alimentari), resta pur sempre un +1,3% ben al di sopra delle previsioni degli analisti (+0,2). Di tagli ai tassi, probabilmente, se ne parlerà in un futuro molto più lontano.
Per l’economia Usa sono però arrivate altre notizie non buone. Dopo l’annuncio ufficiale dell’Iran – convertirà le riserve all’estero da dollari in euro, a accetterà pagamenti del greggio solo nella moneta europea – si scopre che anche altri paesi produttori di petrolio stanno più o meno velocemente muovendosi nell’identica direzione. Il Venezuela più rapidamente di tutti, visto che in un solo anno ha ridotto il peso del dollaro nei propri depositi di vauta estera dal 95 all’80%. Nello stesso tempo ha aumentato le attività denominate in euro dal 5 al 15%. L’insieme dei paesi produttori, Russia compresa, ha fatto altrettanto nel secondo trimestre di quest’anno, passando dal 67 al 65%. Sembra poco, ma segna un’accelerazione. Probabile perciò che questi spostamenti si traducano in un’ulteriore indebolimento del dollaro.
Il crollo della borsa thailandese (ieri -11,7%) ha trascinato poi al ribasso tutte le borse mondiali, a partire da quelle asiatiche. Il crollo è di origine strettamente monetaria e speculativa. Nei giorni scorsi, nel tentativo di porre un freno all’apprezzamento (+14% dall’inizio dell’anno) della moneta locale, il baht, la banca centrale aveva imposto agli istituti di credito di bloccare per un anno il 30% degli afflussi in valuta estera superiori ai 20mila dollari, con la sola esclusione delle esportazioni. Davanti alla fuga degli investitori, ieri mattina, è arrivato il dietrofront: da oggi saranno esentati anche gli investimenti stranieri sul mercato azionario.
L’episodio segnala la fragilità degli attuali equilibri globali, sostenuti fin qui principalmente dagli alti ritmi di crescita delle economie asiatiche. Equilibri che si poggiano da molto tempo su un pilastro «granitico»: il dollaro, autentica moneta di scambio universale, elemento di certezza nella nebulosa inestricabile delle variabili.
Sei anni di presidenza Bush, e di teocon al timone dell’economia principale, hanno però lasciato il segno. Il deficit della bilancia commerciale e quello dello stato federale hanno raggiunto livelli mai visti prima (secondo i criteri di Maastricht gli Usa non potrebbero entrare: il rapporto deficit/Pil è al 6,8%), e la banca centrale ha dovuto abbandonare la politica dei bassi tassi di interesse per continuare ad attrarre capitali dall’estero. Abbiamo perciò la situazione paradossale per cui il paese più ricco del mondo è anche il più indebitato, e continua a farlo a ritmi crescenti. Qualsiasi interruzione nel flusso dei capitali verso gli Usa rischia perciò di avere conseguenze sistemiche imprevedibili. Molto dipende dalla stabilità del dollaro. Che infatti è andato «in sofferenza» (1,32 rispetto all’euro).