«Mi chiamo Aram, sono professore di Scienze politiche all’università di Kabul». Parla da dietro una recinzione di ferro, in un inglese fluente, zuccotto nero in testa e un impermeabile. Leggerino, visto l’improvviso abbassamento delle temperature che ha colpito anche Roma. «In effetti – racconta il professore – mi sono preso un terribile raffreddore. Con la pioggia, dormire in tenda è piuttosto duro».
Mattina presto, alle spalle della stazione Ostiense di Roma. Questo è il punto di ritrovo dei profughi in arrivo dall’Afghanistan: negli ultimi sei mesi stanno crescendo a dismisura. A fine febbraio l’associazione Medici del mondo ha deciso di prendere la situazione in mano, ha fatto quello che poteva con il budget a disposizione: comprare settanta tende, tipo igloo, e distribuirle. Prima, i profughi afghani dormivano a terra, nei parchi vicini, o alla stazione. Qualcuno, in questo piccolo spazio recintato, aveva cominciato a costruire tende fatte con la plastica e il cartone «uguali a quelle che si vedono nei campi profughi del Darfur», racconta Elsa Manghi di Medici nel Mondo. Adesso, almeno, le tende sono «professionali». Ma l’accampamento è ovviamente abusivo. Lo spiazzo è di proprietà delle Ferrovie. E da qualche giorno gira voce di un possibile sgombero.
Aram è arrivato soltanto da una settimana. Il suo viaggio è stato come quello di tutti gli altri: si parte dall’Iran, si arriva in Turchia attraverso le montagne – in questo periodo innevate e pericolosissime – da lì si va in Grecia, attraverso una nuova rotta delle carrette del mare che non fa meno morti di quella del Canale di Sicilia. Infine, l’approdo in Italia, il più delle volte nascosti sotto i camion trasportati dalle navi commerciali o acquattati nei traghetti di linea. Arrivano a Venezia, a Cesena, a Ancona. E lì, dipende molto da chi si trovano di fronte. Quando ha distribuito le tende, l’associazione Medici del mondo ha tentato un primo screening delle circa 100 persone (ieri erano già diventate 150) che dormono abitualmente alle spalle del terminal Ostiense: il 6% di loro aveva un decreto di espulsione, il 75% dei quali emesso prima di poter fare richiesta di asilo politico; il 25% delle persone aveva in mano una richiesta di asilo; il 14% aveva già ottenuto una protezione umanitaria (cioè un permesso di soggiorno per un anno) e soltanto a uno di loro era stato riconosciuto l’asilo politico. L’età media è molto bassa: 22 anni. La percentuale di minori è significativa: il 24%. Ma non sempre la questura li riconosce come tali. Sulla richiesta di asilo di molti di loro c’è scritta la stessa data di nascita, messa arbitrariamente dalla questura in mancanza di documenti di identità. La data è 1-1-89. Dal primo gennaio di quest’anno sono diciottenni per la legge italiana. Dunque meno protetti.
Il professor Aram, che di anni invece ne ha trentacinque, era rientrato in Afghanistan dall’Iran dopo la caduta dei talebani «per servire il mio paese». La delusione è stata cocente: «Non è possibile fare nulla, non c’è modo di insegnare anche se l’università è aperta. Kabul è una città assediata». Dei soldati della missione Isaf dice «c’è da avere paura, perché loro stessi hanno paura. Si spara. Non sono in grado di mantenere la sicurezza». E sulla situazione a sud parla chiaro: «La provincia di Hellmand è in mano ai talebani».
Dall’Afghanistan si scappava anche prima, come racconta Mohammad Jan Azad, diciannove anni, afghano, mediatore culturale, relatore al corso di formazione iniziato ieri al Centro Astalli proprio sulle «presenze trasparenti», cioè i rifugiati. Primo argomento, ovviamente, i minori afghani «la nuova emergenza». «Io sono arrivato nel 2003, un viaggio allucinante, che è durato quasi due anni». Talmente duro – un suo amico è morto tra le montagne – che Mohammad spiega così la totale assenza di donne. Un altro dato significativo insieme all’alta presenza di minori. Ma è stato fortunato, perché ha trovato accoglienza, la possibilità di studiare l’italiano e quindi di trovare un lavoro. Per chi arriva oggi, non è così. C’è la stazione. Negli 860 posti letto – il numero più alto d’Italia – messo a disposizione dei richiedenti asilo a Roma (soltanto 150 dei quali pagati dallo Stato), il Comune ha assorbito per ora soltanto 120 afghani. Trenta sono in lista d’attesa. Si va avanti con il contagocce, insomma. «Facciamo il possibile, ma non può fare tutto Roma, servirebbe un progetto nazionale», dice Maurizio Saggion del progetto Integra. Che, sullo sgombero del piccolo accampamento, non può assicurare nulla, se non che «anche noi del Comune monitoriamo la situazione».
Intanto per il professor Aram inizia un’altra notte. Per salutarci, tira fuori dal la tasca un libretto che «mi fa compagnia»: è la dichiarazione dei diritti dell’uomo.