Mentre da un lato c’è chi dibatte sui meriti o i demeriti di una legge (la così detta Legge Biagi) al centro della querelle sulla precarizzazione del mercato del lavoro, dall’altro c’è chi si dibatte per urlare a gran voce l’elementarità, nonché l’evidenza, dei fatti: «Forrest Gump lo direbbe così: Precario è chi il precario lo fa». Forrest Gump, «con quella disarmante ingenuità che subito diventa distillato di raffinata saggezza», produrrebbe così, in quattro e quattr’otto, la sua diagnosi lapalissiana. A farsi seguaci di tale saggezza pop non sono due persone qualsiasi ma Maurizio Sacconi e Michele Tiraboschi, rispettivamente ex sottosegretario di Stato presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali del governo Berlusconi, e direttore del Centro studi internazionali e comparati «Marco Biagi». Forrest Gump lo direbbe così, e loro anche. Lo fanno dalle pagine di Un futuro da precari? (Mondadori, pp. 227, euro 17,00), un libro sul cui contenuto non ci si è soffermati a sufficienza, e di cui vale la pena riportare alcuni stralci. La tesi di fondo è che la precarietà non esiste, come già ci anticipava Forrest Gump (p. 122). La precarietà è una «favola» che è «oggi tanto di moda» (p. 64). O meglio, se esiste, esiste per chi se la merita, perché «per quanti hanno coltivato le doti della passione e della determinazione è difficile pronosticare oggi un futuro da precari» (p. 45). I protagonisti della «favola», come indicato nel sottotitolo, sono i giovani, che i due autori invitano, invitando implicitamente se stessi, a conoscere meglio. Troppo spesso, sembrano dire, sono vittime di cliché, i «nostri ragazzi». «Il vero problema è che nessuno li conosce realmente. Nessuno sa cosa passa per la loro testa e nei loro cuori. Nessuno ha gli strumenti per dialogare con loro, per farli sognare e per toccare le corde più profonde del loro intimo» (p.38).
Maurizio Sacconi quanto Michele Tiraboschi dichiarano una fiducia nei giovani che ha qualcosa di retoricamente commovente: «Sanno essere coraggiosi e belli, i nostri ragazzi; e, parlando con loro, li scopriamo non meno generosi e idealisti di quanto lo siamo stati, da ragazzi, noi genitori. Molti di questi giovani sanno ancora sognare, e lottare con determinazione per un ideale, per un valore, per un mito» (p.42). E ancora: «Hanno energie davvero straordinarie, i nostri ragazzi(…). Chiedono soltanto un’opportunità. Chiedono semplicemente, e molto banalmente, che qualcuno si fidi e scommetta davvero su di loro» (p.43). Non potrebbe esserci approccio migliore di questo, che è come dire bando alle semplificazioni, bando agli stereotipi. E quando si parla di giovani, e quindi di futuro, non c’è niente di meglio che partire da una prospettiva di fiducia in chi quel futuro è anagraficamente destinato a metterlo in piedi. Gli autori d’altra parte si mettono nella prospettiva dei padri («Spetta infatti prima di tutto a noi genitori, compiere ogni sforzo utile», p.33), il che consente loro di parlare con una qualche forma di accorata oggettività. Però c’è un però. E il però è che quegli stessi giovani («coraggiosi e belli», «generosi e idealisti») vengono descritti dai nostri autori anche in un altro modo: «Giovani che, non di rado, non hanno la pazienza, e forse neppure l’umilità, di intraprendere un periodo, più o meno lungo, di addestramento sul lavoro» (p. 21). Ancora: «Certamente, i giovani italiani hanno voglia di mettere su famiglia e di avere una casa tutta loro. Ma di fatto, come testimoniano le più accurate ricerche empiriche, non fanno poi molto per realizzare questo obiettivo» (p. 28). E ancora: «Il nuovo motto (…)è diventato un martellante “tutto e subito”. E così si spiega come mai i nostri giovani rifiutino lavori, ancorché stabili e professionalizzanti, solo perché ritenuti umili e faticosi. Ma anche, semplicemente, non alla moda»(p.8). E infine: «Certo, anche i ragazzi sanno perfettamente che non tutti potranno essere famosi. Lo dice la canzone: “Uno su mille ce la fa”. Ma almeno non si chieda loro il sacrificio di un trasferimento, anche se solo di pochi chilometri da casa, né tantomeno quello di un indesiderato pendolarismo. La soluzione ai problemi deve essere facile e indolore» (p. 9). È questa la risposta che Maurizio Sacconi e Michele Tiraboschi danno ai giovani che chiedono «che qualcuno si fidi e scommetta davvero su di loro»? Per una buona parte dei giovani, dunque, c’è poco da sperare. Ancora meno ci si può aspettare dalle generazioni che si stanno formando ora sui banchi di scuola o nelle aule delle università: «Non sorprende allora (…)constatare che molte scuole e università, (…)siano oggi a tal punto degradate, vuote di idee e di passioni, da diventare poco più di un mercato: un mercato a basso costo, e per tutte le tasche, della peggiore delle illusioni, quella della droga. Morire lentamente. (…). Morire a quindici o vent’anni, talvolta non solo in senso figurato, riempiendosi di sostanze stupefacenti, ma anche semplicemente respirando bombolette di butano» (pp. 34-35). L’Italia che raccontano Sacconi e Tiraboschi è anche un paese di giovani debosciati, pappamolli mammoni, che passano gli anni più formativi della loro vita avvinghiati a fantomatiche bombolette di butano. È naturale poi che facciano i precari. È naturale che non trovino lavoro: in quelle condizioni sarebbe difficile anche trovare la strada di casa o la forza di rialzarsi dal marciapiede. Essere precari è allora una conseguenza, non una causa: «Il precariato diffuso, la mancanza di un lavoro, il difficile accesso alla casa, la crisi delle sedi dell’educazione e della formazione non sono le cause, ma semmai le inevitabili conseguenze di un silenzioso mutamento sociale» (p. 31).
Ecco fatto. Ecco l’Italia che ha in mente una parte non piccola del paese, su cui fa presa la facile demagogia di affreschi del genere. Con questo, bisogna imparare a fare i conti. Su questo bisogna lavorare, piuttosto che adagiarsi sulla fotografia, tutto sommato rassicurante, di un’Italia inesorabilmente spaccata in due. È con queste mentalità che la sinistra deve confrontarsi. Su una cosa, Maurizio Sacconi e Michele Tiraboschi hanno ragione, così ragione da rendere del tutto contraddittoria la loro posizione. Sul fatto che a poco o nulla serve incrociare le spade sul merito di una singola legge, se non si lavora a fondo per eliminare gli stereotipi, se non si incoraggia un approccio critico e più consapevole (i giovani, scrivono i due autori, «non sono più educati alla critica, alla complessità e al discernimento, alla ricerca della verità», p. 15). Hanno ragione a dire, citando Rilke, che «sarebbe così bello e appassionante tornare a spiegare loro che non abbiamo alcuna ragione di diffidare del futuro» (p. 38). Esatto. Bisogna abbattere i luoghi comuni, radere al suolo gli stereotipi, bisogna trovare il modo di guardare avanti (al futuro, e dunque ai giovani) costruttivamente, di indagare le ragione che stanno alla base di un mutamento sociale effettivamente in atto. Solo, è tutto il contrario di quello che avviene nelle quasi 230 pagine di Un futuro da precari?, zeppe di semplificazioni, di preconcetti e di stereotipi ideologici. E pensare che contiene una domanda, nel titolo. Ma è una domanda retorica. Una domanda che i due autori rivolgono non al paese, ma a Forrest Gump.