E al congresso Epifani farà i conti con i «no» di Rinaldini

Il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, aspetterà il congresso dell’1-4 marzo prima di affrontare un’eventuale discussione sulla riforma del modello contrattuale. Non ha scelta, per il semplice motivo che è proprio su questo argomento che si è coalizzata una possibile opposizione interna, guidata dal segretario della Fiom Gianni Rinaldini e da Giorgio Cremaschi, anche lui dei metalmeccanici e da sempre punto di riferimento della sinistra irriducibile. L’opposizione, per ora, non c’è. Nel senso che al congresso si va con un documento unitario in 10 capitoli (tesi). Però, sulla tesi 8, quella sulle «politiche contrattuali», è stata presentata una tesi alternativa, la 8a, proprio da Rinaldini, Cremaschi e altri dirigenti della sinistra, che ha raccolto, nel dibattito precongressuale, il 15% dei voti. Se Epifani vuole uscire dal congresso con una investitura unitaria, dovrà tener conto delle posizioni di questo nuovo raggruppamento di sinistra (che ha sorpassato quello capitanato da Gian Paolo Patta) che sulle politiche contrattuali pone una condizione: nessun «accordo quadro» con la Confindustria.
La linea largamente maggioritaria, quella cioè della tesi 8, pur essendo molto distante dall’impostazione della Confindustria non ripudia invece la concertazione. La proposta di Epifani prevede infatti modifiche al modello attuale sulle quali confrontarsi con le imprese. Il contratto nazionale viene potenziato nel senso che gli aumenti dovrebbero essere legati all’«inflazione effettiva» (non più a quella programmata) e consentire anche «l’utilizzo di quote di produttività» per incrementi aggiuntivi. «La contrattazione decentrata va estesa e riqualificata, a partire da quella aziendale», dove sono previsti «aumenti salariali variabili», con la possibilità di un contratto territoriale se non si fa quello aziendale.
La proposta di Rinaldini e Cremaschi, invece, parte da una premessa politica: «Non si tratta di definire le regole del prossimo contratto nazionale con un accordo quadro» perché «starà all’autonoma valutazione» dei sindacati decidere le richieste tenendo conto che: il contratto nazionale «va rafforzato» e che «il potere d’acquisto, la situazione economica, quote di produttività e la distribuzione della ricchezza devono essere i criteri di riferimento». Poi deve esserci una «contrattazione aziendale e di gruppo». Il tutto in un sistema che prevede la possibilità di scioperare in deroga alla legge di regolamentazione nei servizi pubblici, se dopo 90 giorni dalla scadenza del contratto non sono state aperte le trattative.
Insomma, la Cgil si presenta al congresso divisa proprio sulla riforma della contrattazione, con Epifani e l’85% dell’organizzazione che vogliono quello che loro stessi definiscono un aggiustamento delle regole attuali e il 15% che invece vuole conquistare il contratto attraverso il conflitto. Il fatto è che questo 15% è rappresentato dalla Fiom, il sindacato più importante dell’industria, salvo una combattiva minoranza epifaniana guidata dal segretario nazionale Fausto Durante. Tutto ciò significa che sul modello contrattuale Epifani non dispone della stessa libertà di movimento di Savino Pezzotta (Cisl) e di Luigi Angeletti (Uil).
Poi c’è il fattore elezioni. Un eventuale accordo sul nuovo modello contrattuale presuppone il coinvolgimento del governo, se non altro perché ci sono 3,5 milioni di dipendenti pubblici. E la Cgil non sembra in grado di reggere, a meno di un terremoto interno, un grande accordo con il governo Berlusconi. Meglio, quindi, per Epifani aspettare. E sperare.