E adesso?

Ci chiamano da Pristina. E’ il silenzio a dominare e il timore del baratro. E’ morto il leader dell’indipendenza, nel momento peggiore, a quattro giorni dai primi colloqui diretti tra albanesi e serbi. Tutto è rinviato. E’ la preoccupazione a prevalere nel mondo, nell’Europa più incline a trattare sullo status finale e negli Stati uniti schierati per l’indipendenza ad ogni costo. Il fatto è che Ibrahim Rugova, l’«intellettuale», il «pacifista», il «Gandhi dei Balcani» come lo chiamavano non proprio a ragione, non lascia eredi. Era il solo a rappresentare la faccia rispettabile della richiesta d’indipendenza, il solo ad essere depositario di una linea «non violenta» che però lo ha visto sempre sconfitto e silenzioso, se non connivente con i peggiori crimini della contropulizia etnica a danno di serbi, rom, goranj e albanesi moderati. A volte anche in modo sfacciato, come quando, dopo le elezioni dell’ottobre 2004, aveva indicato come premier quel Ramush Haradinaj, ex comandante dell’Uck nella Drenica, che appena nominato è stato subito accusato dall’Aja per crimini di guerra.

Non che Rugova non fosse consapevole della criminalità di Haradinaj, come di quella del leader dell’Uck Hasim Thaqi. Infatti, appena le truppe della Nato presero possesso della regione ed uscirono quelle di Belgrado (secondo gli accordi di Kumanovo del giugno 1999), era cominciata una sanguinosa resa dei conti che ebbe come obiettivo proprio i consiglieri politici di Rugova e i membri del suo partito, la Lega democratica. Nel silenzio generale e dello stesso «presidente» – eletto in elezioni monoetniche, è giusto ricordare. Come una coltre di nebbia e silenzio è calata in questi sei anni di occupazione Nato e amministrazione Unmik. Hanno preparato di fatto l’indipendenza del paese e oscurato quel che accadeva: 200.000 serbi e altrettanti rom cacciati nel terrore, 1300 morti e altrettanti desaparecidos, 150 monasteri e chiese ortodosse incendiate o rase al suolo. Restano in pochi a rischio della vita, in enclave presidiate da carri armati. Mentre parte una dura lotta di successione e si affaccia sulla scena il mafioso Behgjet Pacolli sponsorizzato da Washington.

Che fine ha fatto la via «pacifista» e «multietnica». E adesso? Il giocattolo si è rotto. L’Occidente che non pretende il rispetto degli standard sulla salvaguardia delle minoranze e sul rientro dei nuovi profughi, che si è vantato della «guerra umanitaria» – ancora rivendicata da troppi leader del centrosinistra – sta legittimando un’altra patria etnica.