Due milioni di profughi iracheni in fuga cercano in silenzio una nuova patria

Quando non c’ è troppo vento Abu Fhadi siede fuori dalla tenda e li guarda passare: di là i pulmini con le famiglie verso la frontiera siriana, di qui i camionisti in coda per rientrare nell’ inferno iracheno. Abu Fhadi non va da nessuna parte. Anche lui è scappato da Bagdad, 10 mesi fa, con la moglie Awataf e due figli. Ma a Damasco non ci sono mai arrivati. Da 10 mesi stanno nel deserto, sul ciglio di una strada bordata di cemento e filo spinato, un corridoio largo poche centinaia di metri e lungo sei chilometri che unisce i due posti di frontiera. «Né avanti né indietro», dice quest’ uomo di 60 anni, giacca della festa e barba curata, mentre accanto a lui Awataf si morde le labbra. «I siriani non ci fanno entrare, gli iracheni non ci rivogliono». Così stanno qui, tra gli scorpioni, vivi grazie al campo allestito dall’ Unhcr, l’ Alto Commissariato Onu per i rifugiati. Intrappolati nella morsa di due «Paesi fratelli» ci sono 352 persone, 80 bambini. Tutti di Bagdad. Tutti «palestinesi». Erano 40 mila, arrivati in Iraq a varie ondate dal ‘ 48 in poi. Saddam li accolse senza dargli un passaporto. «Parlava della causa palestinese a ogni discorso – ricorda Abu Fhadi -. E noi adesso paghiamo». Dopo la guerra sono diventati una minoranza senza protezioni. Insegnanti, tecnici, pasticcieri. Presi di mira dalle milizie sciite. C’ è chi ha conservato il biglietto trovato sotto la porta: «Figli di Saddam, 10 giorni per andar via o morirete». Andarsene. Alla frontiera con un «foglio di via», andata sola. Nel vento di sabbia che avvolge la tendopoli Mohammed Suleiman, magro e tirato, 30 anni e 5 figli, mostra il documento con la scritta «Non ritorno». E chi voleva tornare? Avanti, oltre il Triangolo Sunnita, in piccoli convogli, fino alla dogana di Al Waleed, maggio 2006, sei chilometri e siamo salvi. Invece no, sono rimasti qui in mezzo. Perché la Siria ha detto basta. Basta profughi palestinesi. Damasco ne ha 500 mila «storici», in più ne aveva preso in carico oltre 400 che nessun altro Paese arabo voleva: erano bloccati alla frontiera tra Iraq e Giordania, ora vivono al nord nel campo dell’ Unhcr di al-Hol, muri al posto di tende, la squadra di calcio, corsi di computer e cucito, comunque una gran voglia di andare via. A Tanf si respira solo quella. A Damasco il ministro dell’ Informazione Mohsen Bilal non apre spiragli. «La Siria ha fatto la sua parte, nessuno ha accolto con tanta generosità i fratelli iracheni». E i palestinesi? «Hanno il diritto di ritornare nei Territori Occupati». Ma Israele non accetta. Presi in mezzo, Abu Fhadi e gli altri, pedine nel grande gioco del Medio Oriente. Rispetto a un paio di anni fa Damasco sta vincendo. «Dall’ asse del male Bush è passato all’ asse dell’ amore», scherza il ministro che ha studiato medicina a Padova. Anche Laurens Jolles parla italiano. Un olandese cresciuto a Bergamo, 20 anni all’ Unhcr. Da 7 mesi è responsabile della missione di Damasco, chiede all’ Italia di fare pressioni perché la Siria accolga i palestinesi di At Tanf, «ma sarà molto dura». «D’ altra parte – dice Jolles – nessun Paese ha accolto gli iracheni come fa il governo di Bashar Assad». Le cifre ufficiali parlano di 1,2 milioni di persone (su 18 milioni di siriani), mentre 750 mila sarebbero in Giordania. Un Iraq fuori dall’ Iraq. «Il più grande esodo del Medio Oriente dal ‘ 48 – sottolinea Laura Boldrini, portavoce Unhcr -. Un flusso silenzioso che ha ormai assunto le proporzioni di una grande emergenza umanitaria» di cui non si possono fare carico solo i Paesi confinanti. L’ Unhcr organizza per il 17-18 aprile una conferenza a Ginevra e tra gli obiettivi c’ è la raccolta di 60 milioni di dollari per l’ emergenza: offerti finora 32, di cui 18 dagli Usa. Altri donatori: Australia, Svezia, Nuova Zelanda. E l’ Italia? «Per ora niente, ma contiamo sul suo apporto». Eccolo, il «flusso silenzioso»: iracheni in coda nella luce fresca di Damasco per registrarsi all’ Unhcr. «Certi giorni – dice Jolles – ne sono arrivati 7 mila». Donne, giovani, vecchi. Sciiti, sunniti, cristiani. Ogni bocca, una ferita: «hanno ucciso mio padre», «mio marito è morto per una bomba». Molti sognano di andare all’ estero (ma solo poche migliaia potranno ottenere asilo). Vita dura. Gli iracheni fuori dall’ Iraq non vivono nei campi profughi ma per legge non possono lavorare. I bambini possono andare a scuola (ma solo il 30% lo fa). «Stiamo finendo i soldi», dice un ex tassista di Bagdad arrivato tre mesi fa. L’ Unhcr fornisce tra l’ altro assistenza sanitaria e un supporto di 10 dollari al mese a persona. «Quest’ anno prevediamo che la lista dei più vulnerabili toccherà i 200 mila nomi». La Bagdad fuori Bagdad si chiama Sayeda Zeinab, 15 minuti dal centro. Gente per la strada e negozi aperti anche la sera, mentre in Iraq alle 2 la gente comincia a scappare a casa. Chi può va in affitto dai siriani che alzano i prezzi e si spostano altrove: un appartamento dignitoso 200 dollari al mese (qui il reddito medio è 110 dollari al mese). Molti nuovi arrivati sono sciiti. Hussein è qui da tre giorni, a Bagdad i sunniti hanno ucciso il fratello. Nella casa dirimpetto c’ è un sunnita, lui alza le spalle: «Sono stanco di queste cose». Solo quando hanno impiccato Saddam, racconta una signora, alcune ragazzine si sono accapigliate a scuola. A casa, in Iraq, era diverso. Per riavere il corpo del padre, torturato a morte in una stazione di polizia, un ragazzo palestinese di Ad Darf racconta di aver pagato 700 dollari. Al saldo ha avuto una foto. E il corpo? «Dopo. Ma non era lui, era il cadavere di un altro». Piange. Il vento del deserto non inganna il dolore, come forse potrebbe fare il profumo del pane appena sfornato in una via di Sayeda Zeinab, la Bagdad di Damasco. Abu Fhadi guarda la strada: «Fateci uscire di qui, per favore».