Non la sommatoria. Abbiamo bisogno di due momenti: il primo è il ruolo di una sinistra che sconfigga Berlusconi alle elezioni. Il secondo è un nuovo protagonismo anticapitalista
Ha fatto bene Alberto Asor Rosa, nell’articolo pubblicato il 22 dicembre su questo giornale, a mettere in guardia contro il rischio di caricare di attese eccessive (e soprattutto della richiesta di risposte immediate a problemi che per loro natura hanno invece un carattere strategico) l’assemblea che Il Manifesto ha molto opportunamente convocato per il 15 gennaio. Senza dubbio è già un fatto politicamente assai rilevante che un’aspettativa così ampia si vada manifestando per questo appuntamento. Ma proprio per questo non si può non auspicare che «le forze intellettuali, politiche e popolari che stanno alla sinistra della sinistra moderata diano prova» – come Asor ha scritto – «di una serietà e di una lungimiranza di cui la sinistra moderata si è dimostrata completamente priva». E’ un esigenza confermata anche dal desolante spettacolo di queste ultime settimane, con l’esplodere delle polemiche sulle formule e sulle candidature sino al distacco dell’Udeur di Mastella. Ritengo perciò necessario, in preparazione dell’assemblea del 15 gennaio, distinguere con chiarezza due livelli di discussione, di ricerca e di iniziativa che certamente hanno fra loro non poche connessioni, ma che sono logicamente diversificati. Il primo è quello del ruolo che le forze che stanno alla sinistra del cosiddetto «moderno riformismo» possono e debbono svolgere per costruire uno schieramento – dalla sinistra più radicale sino al centro democratico – che sia in condizione di sconfiggere alle prossime elezioni politiche Berlusconi ed i suoi alleati e quindi di assumere il governo del paese. Il secondo piano riguarda, invece, l’impegno per dar vita a quella che Il Manifesto, nell’editoriale che ha indetto l’assemblea del 15, ha indicato come «la sinistra che verrà»: non una semplice sommatoria – che già si è rivelata impraticabile – delle posizioni e dei gruppi dirigenti delle forze che alle passate elezioni europee hanno rappresentato l’ala più radicale dell’opposizione e hanno raccolto il 13% dei voti; ma una sinistra che, muovendo da una visione critica della realtà e delle sue trasformazioni, sappia raffigurare le linee di un processo di organizzazione della società che non sia vincolato, come oggi accade, dal potere assoluto del capitale, ma avvii la realizzazione della speranza in un mondo diverso. Che vi sia un rapporto fra questi due livelli d’iniziativa è fuori dubbio. Certo, è oggi largamente avvertita come un’esigenza prioritaria quella di promuovere una mobilitazione politica e programmatica che porti a liberare l’Italia, nelle elezioni del 2006, da Berlusconi e dal berlusconismo: un obiettivo che sarebbe un grave errore considerare alla stregua di un traguardo già acquisito e che invece acquisito non è, come ha dimostrato il rapido svaporarsi del superficiale ottimismo che nel centro-sinistra si era diffuso nella scorsa estate e come hanno confermato con grande chiarezza le delusioni che hanno accompagnato la netta vittoria di Bush nelle elezioni americane. E’ evidente, perciò, che per conseguire questo obiettivo occorre ricercare (preoccupa, al riguardo, la rissa che si è aperta proprio nell’ala più moderata dello schieramento) la più ampia alleanza delle forze democratiche delle forze democratiche dalla sinistra al centro. Ciò comporta, inevitabilmente, un compromesso politico e programmatico tra posizioni che sono anche marcatamente diverse.
Ma è un compromesso che non può rassegnarsi al minimalismo moderato che caratterizzò la linea che portò alla sconfitta del 2001 e che neppure può fondarsi su una sorta di patto del silenzio proprio sulle questioni più scottanti. Al contrario esso richiede una piattaforma sufficientemente qualificata per mobilitare un ampio arco di energie democratiche, in particolare su temi come l’impegno per una politica di pace, il ripristino della legalità costituzionale infranta dal governo di centro-destra, il pieno recupero di un corretto rapporto tra gli organi dello Stato e delle forme sostanziali di partecipazione democratica dei cittadini, l’inversione della tendenza che in questi anni ha già gravemente compromesso i diritti dei lavoratori, le loro condizioni di vita, le possibilità per i giovani di un’occupazione non precaria, le fondamentali conquiste dello Stato sociale. E’ chiaro che per caratterizzare in questa direzione il programma della coalizione democratica è essenziale non solo che si sviluppi in modo fecondo quel confronto sui contenuti che finora è stato sostanzialmente eluso, ma che in tale dibattito pesino più che in passato le forze di sinistra che sono portatrici di un’istanza critica ed alternativa rispetto all’attuale stato di cose e all’ideologia liberistica e privatizzante che è tuttora egemone.
Di qui l’importanza della spinta che al riguardo può venire dall’assemblea del 15. Ma se di indubbio rilievo è il contributo che occorre dare a una più accentuata qualificazione politica e programmatica – che sinora è mancata – dell’opposizione alla destra, esso è però tutt’altra cosa (sarebbe perciò un grande sbaglio, anche se i rapporti tra i due momenti non mancano, che fra essi si determinasse un fuorviante cortocircuito), dall’impegno, necessariamente di lungo periodo e di ben maggiore spessore tecnico, sui fondamenti politici e culturali di una sinistra che sappia attrezzarsi per dare risposta ai grandi interrogativi che sono proposti dalla crisi così drammatica che il mondo oggi attraversa.
Le questioni con le quali deve misurarsi questo impegno (che è evidentemente di carattere più strategico) sono sostanzialmente quelle riassunte nel temario proposto nel suo ultimo articolo da Asor Rosa; e che del resto corrispondono largamente sia ai «tre nodi» già indicati da Rossana Rossanda e ai problemi più sottolineati anche negli altri interventi che hanno animato il dibattito aperto da Il Manifesto. In pratica: le condizioni di un ordine mondiale che non solo escluda la guerra (e davvero non è poco) ma che sia fondato sulla cooperazione e sulla solidarietà tra i popoli e non sulla sopraffazione del più forte; le linee di sviluppo di una società che risponda ai bisogna ai bisogni individuali e collettivi, al di là di una logica meramente redistributiva, e che non sia determinata dalla assoluta preminenza dell’interesse economico e della logica della crescita produttiva; una democrazia sostanziale, quale sinora non si è mai realizzata, che rispetti i diritti di ognuno e di tutti e che si fondi sulla piena partecipazione democratica e sulla capacità di autogoverno dei cittadini. Anche su temi di questa portata – come è stato detto – non siamo certo all’anno zero.
Sia la riflessione critica di quelle forze di sinistra che non si sono arrese all’ondata liberista né si sono arroccate sulla semplice difesa del passato; sia lo stimolo di quelle correnti che già da alcuni decenni, come il femminismo o l’ecologismo più avveduti, hanno radicalmente messo in discussione una visione economicistica e produttivistica dello sviluppo; sia la scesa in campo, in questi ultimi anni, dei movimenti contro la globalizzazione capitalistica, hanno dato avvio ad un ripensamento critico e a sollecitazioni politiche che vanno nella direzione di un rinnovamento sostanziale. Ma si tratta di spunti che, per il momento, sono ancora ben lontani da una sintesi che possa contendere il campo al moderno capitalismo. E’ chiaro, d’altronde, che così i problemi da affrontare come le forze da mettere in gioco hanno una dimensione che va ben oltre i confini non solo di un singolo paese, ma dello stesso Occidente. Si può sperare che dall’iniziativa che prenderà le mosse dall’assemblea del 15 possa venire un contributo alla costruzione di una soggettività di sinistra che sia in grado di confrontarsi con i problemi del ventunesimo secolo? E’ bene guardarsi, senza dubbio, da facili ed ingenui ottimismi, che non avrebbero rapporto con le dimensioni delle questioni da affrontare. Ma proprio per questo è tanto più necessario dare continuità all’impegno di ricerca che si aprirà con questo incontro, senza strumentali semplificazioni ed evitando ogni rischio di caduta organizzativistica e politicistica.