Hardt ha proposto una nuova lettura di Porto Alegre. Una lotta tra due anime incomponibili: ‘sovranisti o mondialisti’, ‘alternativa politica organizzata’ o azione dal basso di una moltitudine de-organizzata. Burgio contesta il dilemma, e afferma la necessità di una relazione tra lotta all’imperialismo e lotta al capitalismo globalizzato, tra progetto comunista e nuovi movimenti di contestazione sociale.
Sul numero 14 (marzo-aprile 2002) della «New Left Review» è apparso un breve articolo di Michael Hardt dal titolo Today’s Bandung? (Una Bandung odierna?) nel quale il coautore, con Antonio Negri, del celebratissimo Empire dice la sua sul Forum di Porto Alegre. È un testo interessante e per molti versi rivelatore, dal quale emerge un quadro chiaro delle posizioni politiche del giovane filosofo politico statunitense, finalmente esplicito su temi finora affrontati attraverso la mediazione di teorie e linguaggi non facilmente decifrabili. Vediamo di riassumerne, per sommi capi, il contenuto.
L’articolo si apre con l’ipotesi, subito scartata, che il Forum sociale mondiale tenutosi nella capitale del Rio Grande do Sul tra la fine di gennaio e i primi giorni di febbraio rappresenti la nuova edizione della Conferenza degli Stati asiatico-africani di Bandung sui temi della non ingerenza e del neutralismo (aprile 1955), che vide il concorso di molti capi di Stato. Perché il parallelo non regge, a dispetto del connotato «anti-sistemico» di entrambi gli eventi? Per diversi ordini di ragioni, non tutti favorevoli – a giudizio di Hardt – al più recente. Mentre a Bandung emerse in tutta la sua drammaticità il risvolto razzista dell’imperialismo e della guerra fredda, «Porto Alegre è stata, per contro, un evento prevalentemente bianco». Pochi partecipanti di provenienza asiatica e africana, e una «drammatica sottorappresentazione» della molteplicità etnica delle stesse Americhe. Ma la differenza capitale sta altrove, e parla, secondo Hardt, di una distanza «politico-storica» stellare tra i due eventi. Protagonista a Bandung fu un ristretto drappello di leaders e rappresentanti politici nazionali, mentre Porto Alegre è stata invasa da una «formicolante moltitudine» e da una «rete di movimenti». Inutile dire che è proprio questa «moltitudine di protagonisti» la grande novità del Forum sociale mondiale, intorno alla quale ruotano le speranze di un diverso futuro. Certo, la «debordante» ricchezza del programma ha «di fatto impedito il confronto tra le differenti opzioni politiche presenti». Resta tuttavia l’esperienza entusiasmante del «perdersi in un mare di gente accomunata dalla volontà di lottare contro la forma attuale della globalizzazione capitalistica», resta la gioia di aver partecipato a un evento grande proprio perché «inconoscibile, caotico e dispersivo».
Detto questo, Hardt affronta una questione politica di indubbio spessore. A Porto Alegre, scrive, erano presenti soggetti diversi per «condizioni materiali e orientamento politico». I movimenti provenienti dall’Europa e dal Nordamerica, per esempio, non hanno molto in comune con i movimenti dei contadini e dei senzaterra. La costruzione di una «rete comune» dei movimenti non può quindi limitarsi a un assemblaggio delle diverse soggettività. Occorre un lavoro, anche un conflitto tra le diverse identità. Si tratta di riconoscere le rispettive posizioni e di trasformarsi, tutti, attraverso uno sforzo di «reciproco adeguamento». Il punto è che le due principali piattaforme ideologiche e politiche nelle quali Hardt vede convergere le soggettività più significative appaiono ai suoi stessi occhi lontanissime tra loro, perché riferite a culture politiche radicalmente contrapposte. Condivisibile o meno che sia la sua analisi (diremo più avanti che cosa non ci convince di essa e della proposta politica che ne discende), viene fuori da tale confronto un quadro di indubbio interesse. Che spazza via qualsiasi semplificazione, a cominciare dall’idea – data spesso per ovvia qui da noi – che il «movimento dei movimenti» sia anti-liberista e democratico, anti-globale e anti-nazionale (o a-nazionale). Hardt sostiene che le cose non stanno affatto così. E che l’insieme dei movimenti riunitisi a Porto Alegre si divide, in parti diseguali, tra una posizione «anti-capitalista, avversa alla sovranità nazionale e favorevole a una globalizzazione alternativa», e un’altra «anti-liberista, favorevole alla sovranità degli Stati nazionali e avversa alla globalizzazione».
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La questione dirimente è secondo lui «il ruolo della sovranità nazionale». Il diverso giudizio su questa materia caratterizza le due posizioni più significative che si confrontano in seno al «movimento dei movimenti»: l’una interessata a «lavorare per rafforzare la sovranità degli Stati nazionali come barriera difensiva contro il controllo del capitale estero e globale»; l’altra tesa invece a contrapporre un’«alternativa non-nazionale alla forma attuale, anch’essa globale, della gobalizzazione». Connota la prima posizione, anti-liberista e in senso stretto no global, la contrapposizione al capitalismo globale non regolato e alle attività economiche non controllate dagli Stati. Laddove la seconda, interessata a realizzare una «globalizzazione democratica»», si contrappone «al capitale stesso», ed è dunque la sola realmente anti-capitalistica e rivoluzionaria.
Fissate in questi termini le loro coordinate ideologico-politiche, Hardt si pronuncia anche in ordine alla rispettiva influenza di queste due anime del movimento. Osserva che la prima è apparsa maggioritaria nelle giornate di Porto Alegre. Ma attribuisce questa parvenza a fattori contingenti (il Forum era ospitato dal Partido do Trabalho brasiliano, il cui presidente onorario – Luiz Inácio Lula da Silva, ricandidatosi alle presidenziali brasiliane e quindi tanto più interessato a sfruttare la visibilità del Forum – è una «figura chiave» dell’opzione nazionale e anti-liberista) ed esteriori (a sostenere questa posizione sono in genere strutture ben organizzate, dotate di organi di stampa – come Attac, molto influente nel Monde Diplomatique – mentre la rete anti-nazionale è per la sua stessa struttura, oltre che per scelta politica, dis-organizzata, priva di portavoce ufficiali e per questo scarsamente visibile).
In realtà, secondo Hardt, la posizione anti-nazionale e globalista è di gran lunga maggioritaria nel movimento. Lo testimonierebbero due circostanze. A Seattle come a Genova, la base dei movimenti sarebbe su questa posizione. Anche in una organizzazione come Attac l’opzione anti-liberista sarebbe appannaggio dei soli vertici, legati – soprattutto in Francia – ad esponenti di punta dell’establishment politico nazionale. L’altro esempio che, secondo Hardt, attesterebbe la prevalenza della posizione globalista anti-nazionale è il movimento argentino. Organizzato sulla base di assemblee di quartiere e urbane, dunque secondo una logica di democrazia diretta che «afferma la necessaria continuità tra la democratizzazione dell’Argentina e quella del sistema globale», il cacerolazo appare a Hardt «antagonistico» a qualsiasi soluzione della crisi in chiave nazionale perché pervaso da una indiscriminata opposizione alla politica: «i suoi slogan invocano la liberazione non da un uomo politico, ma da tutti quanti: que se vayan todos, l’intera classe politica».
D’altra parte, la rete dei movimenti si vendica della sua scarsa visibilità proprio in forza della sua struttura reticolare, alla quale inerisce, secondo Hardt, una incoercibile energia dinamica. I movimenti a rete non procedono per opposizioni interne, perché nessun nodo della rete ne fronteggia un altro. A Seattle si è fatta l’esperienza, dapprima disorientante, di «gruppi che ritenevamo oggettivamente in contraddizione reciproca – ambientalisti e sindacati, comunità ecclesiali e anarchici – immediatamente in grado di lavorare insieme nel contesto della rete della moltitudine». Funzionando «come una sfera pubblica», i movimenti possono esprimere appieno le loro differenze «entro il contesto comune di uno scambio aperto». Il che naturalmente non significa che le reti siano passive. Esse dislocano le contraddizioni e «impongono la loro forza per mezzo di una sorta di irresistibile risacca». Con «una specie di alchimia», dissolvono le «tradizionali le posizioni fisse». La moltitudine è «capace di trasformare tutti gli elementi fissi e centralizzati nei nodi di una rete infinitamente espansiva». Di modo che, «proprio come il Forum, anche la moltitudine nei movimenti è sempre debordante, eccessiva e inconoscibile». Sarebbe quindi sbagliato applicare alle differenze che la articolano il «modello tradizionale del conflitto ideologico». «Nel tempo dei movimenti a rete, la lotta politica non funziona più così», ed è probabile che quanti hanno tenuto il centro della scena nei giorni del Forum abbiano in realtà «perso la sfida» con la componente globalista, apparentemente minoritaria, del movimento.
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Abbiamo voluto riportare ampi brani dell’articolo di Hardt perché è parso utile mostrare anche il lessico e gli strumenti concettuali dei quali egli si avvale per illustrare le proprie idee. Ma non è certo questo il punto. Come si diceva, il testo è apprezzabile per la chiarezza con cui pone sul tappeto temi politici di rilievo e anche perché permette di comprendere come il coautore di Empire si collochi dinanzi a questioni all’ordine del giorno. Soffermiamoci in primo luogo sulle analisi politiche che Hardt accenna a sostegno della propria posizione filo-globalista partendo dalla lettura che egli dà del caso argentino.
Sostenere che il cacerolazo rifletta un «antagonismo» anti-nazionale e filo-globale pare azzardato, se non altro per la composizione prevalentemente medio-borghese del movimento. Com’è noto, dallo scorso dicembre l’Argentina è scossa dagli effetti convergenti delle politiche predatorie del Fmi e della Banca mondiale da un lato e della corruzione della classe politica che l’ha governata nell’ultimo decennio dall’altro. Risultati di questa miscela sono stati la ripresa dell’inflazione, una raffica di svalutazioni, la polverizzazione dei piccoli patrimoni, la dilagante disoccupazione, lo smantellamento del welfare (a cominciare dalla sanità), il congelamento dei depositi bancari e infine la progettata fiscalizzazione del debito delle banche private. In una parola, la proletarizzazione delle classi medie e la miseria di massa. È ben chiaro alla maggioranza di quanti riempiono le piazze di Buenos Aires che i responsabili del più grave crack della storia argentina dell’ultimo mezzo secolo non è certo la minacciata e sempre più fragile indipendenza nazionale, ma, al contrario, la ferma intenzione degli Stati Uniti di ridurre il paese al disastro attraverso le imposizioni del Fmi per costringerlo finalmente ad abbandonare il Mercosur e ad aderire all’Alca (contro il quale – conviene ricordarlo – proprio nei giorni di Porto Alegre l’Alianza social continental lanciò una campagna in difesa della sovranità politica ed economica dei paesi latino-americani).
Ma non è il caso di insistere su questa questione. Un esempio è soltanto un esempio e si può sempre sostituirlo senza compromettere la saldezza di una tesi. Non c’è idea, per quanto stravagante, che non possa fare appello a qualche prova a proprio favore. Dunque andiamo al nòcciolo delle argomentazioni di Hardt, cominciando dall’idea fondamentale su cui, in definitiva, tutte riposano. Perché la posizione globalista-anti-nazionale è, a suo giudizio, l’unica proponibile? Per la semplice ragione che – come si legge a chiare lettere nelle prime pagine di Empire – l’epoca degli Stati nazionali sarebbe tramontata e la sovranità sarebbe ormai saldamente nelle mani del capitale globale, a-nazionale, senza luogo né centro né radici. Per questo, come ora Hardt scrive, «l’alternativa al potere del capitale globale e delle sue istituzioni può essere trovata solo ad un livello altrettanto globale, da un globale movimento democratico».
Ora, non ci si stancherà mai di ripetere che questa tesi della «cessione di sovranità» o addirittura della «sostanziale obsolescenza» degli Stati nazionali è infondata e fuorviante, smentita dall’evidenza quotidiana e oggettivamente apologetica. Lungi dal trovarci in un «impero», viviamo nel mezzo di un disordine mondiale e di una guerra duratura (cominciata oltre dieci anni fa nel Golfo Persico), la cui posta è, né più né meno, la nuova gerarchia internazionale destinata a sostituire l’ordine di Yalta. In questo quadro, la capacità di decisione e l’influenza dei più potenti Stati nazionali (a cominciare, ovviamente, dagli Usa) e continentali (prima fra tutti l’Unione Europea) si sono, semmai, enormemente accresciute. E si manifestano, all’altezza dei tempi, nelle classiche forme della politica di potenza: la guerra; i colpi di Stato (si pensi, da ultima, alla recentissima vicenda del Venezuela, che ha la disgrazia di essere il quinto produttore mondiale di petrolio in un momento in cui la drammatizzazione della crisi mediorientale e la programmata nuova aggressione all’Iraq impongono agli Stati Uniti di intensificare il controllo di tutte le altre regioni petrolifere); gli embarghi e le misure protezionistiche (tornate a giocare un ruolo sempre più strategico nel quadro dell’«imperialismo neo-mercantilista» denunciato ora anche dalla Conferenza dell’Onu sullo sviluppo e il commercio); la difesa aggressiva delle imprese nazionali (che tali restano a dispetto della proiezione «globale» dei loro mercati); le alleanze politico-militari (o, come oggi si preferisce, le «coalizioni internazionali») e i trattati economici più o meno asimmetrici e iugulatori, attraverso cui mascherare i diktat degli Stati più forti con la retorica «democratica» del «libero scambio».
Di tutto questo Hardt non si interessa. Per cui può attestarsi su un discrimine netto quanto comodo: sei favorevole o contrario a quell’orribile retaggio della modernità che è (o fu) la sovranità nazionale? Ma quando si scambiano i propri sogni ideologici per realtà, quest’ultima si vendica con gli interessi. Così è inevitabile chiedersi che cosa pensi Hardt delle lotte di liberazione nazionale che, ignare del proprio anacronismo, ancora si ostinano a scuotere le sterminate regioni dell’«impero». Arretrati, conservatori, addirittura reazionari i palestinesi, i kurdi, i combattenti delle Farc colombiane? E Cuba, dovrebbe forse smettere di difendere la propria retrograda indipendenza nazionale e accettare – magari anch’essa dollarizzandosi – il destino coloniale che incombe su tutta l’America latina? E che cosa – a ben guardare – dovremmo fare noi stessi di fronte all’attacco quotidiano che il governo Berlusconi (e il discorso vale per molti altri governi occidentali) sferra contro la legalità costituzionale e le prerogative dei corpi elettivi? Anche questo terreno appare residuale nella prospettiva globalista-democratica, tutto interno com’è alla logica novecentesca (cioè «moderna», cioè «obsoleta») della sovranità nazionale e dell’indipendenza dello Stato repubblicano.
Non per caso un solo soggetto resta, in tale prospettiva, a fronteggiare il capitale globale: l’«inconoscibile» ed «eccessiva» moltitudine dei movimenti. Anche a questo proposito le domande si affollano. Come farà questa moltitudine dis-organizzata e indistinta (il tema della sua composizione sociale non compare nel ragionamento di Hardt, né potrebbe figurarvi, posto che – archiviata la dinamica moderna dell’accumulazione – il capitale si valorizzerebbe ormai immediatamente nella riproduzione dei corpi sociali) a contrastare un sistema di dominio tanto possente e sofisticato da unificare sotto di sé gran parte dell’universo mondo? L’impressione è che, per come Hardt se lo rappresenta, il conflitto sociale, politico e militare contro il capitalismo si riduca, in attesa che quest’ultimo si estingua per morte naturale, a un gioco innocuo. Nel quale, a dispetto di qualche subitanea esplosione di violenza urbana, la comunicazione tra i «nodi della rete» è il fine ultimo del «movimento». Non filtra dalle pagine di Hardt alcun sentore della drammaticità delle condizioni di vita imposte alle popolazioni dei paesi più poveri. Non vi è traccia dell’asprezza della lotta che in tutto il mondo coinvolge popoli dominati, violati nei diritti più elementari, espropriati dei territori e delle principali risorse vitali. Non si avverte l’eco del conflitto che in tanti paesi capitalistici masse di lavoratori e di disoccupati tentano di rilanciare, ricostruendo le organizzazioni di classe, rispondendo con la mobilitazione alla dilagante offensiva dei padroni, esponendosi alla violenta reazione dei governi e, non di rado, alla tortura e al carcere.
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E tuttavia resta, lo si riconosce, un punto forte nella posizione di Hardt. Pur non del tutto inedita (già lo scorso novembre Daniel Cohn-Bendit si doleva delle divisioni in seno al movimento e in specie del fatto che, accanto a una componente «favorevole alla democratizzazione dell’economia di mercato», resistessero «retroguardie attestate su vecchie ideologie di estrema sinistra»), la sottolineatura dell’articolazione del «popolo di Seattle» nelle sue stesse componenti radicali impone di mettere da parte sommarie generalizzazioni e di guardare con più attenzione a un soggetto polimorfo, inevitabilmente composito, talvolta attestato su orientamenti tra loro inconciliabili. Del resto, già nei giorni di Porto Alegre emersero non poche divisioni. Non solo, come è noto, tra il Forum sociale e quello del lavoro e del sindacalismo, dove le divergenze concernevano l’interpretazione del conflitto sociale e le forme della sua organizzazione. Né soltanto tra i vertici delle associazioni promotrici (Attac in testa) e i tanti soggetti impegnati nella lotta anti-imperialista (a cominciare dalle Farc e dagli stessi zapatisti), esclusi – al pari di Fidel Castro – dai lavori del Forum. Divisioni si registrarono – come osserva Hardt – anche tra le componenti anti-liberiste del Forum e quelle globaliste.
Hardt è convinto che queste ultime siano maggioritarie nel corpo del movimento e può aver ragione. L’impressione che si ebbe durante il Forum fu tuttavia diversa. «Meno globalizzazione e più democrazia» era la parola d’ordine di settori significativi del movimento Usa (a cominciare dall’International Forum on globalization, che diffuse allora un rapporto intitolato significativamente Alternatives to Economic Globalization). A loro volta, le organizzazioni per la cancellazione del debito (Freedom from debt, Cancel debt e altre) presentarono documenti ispirati al principio dell’autonomia delle economie dei paesi strangolati dal Fmi e dalla Bm. E non mancò nemmeno la voce di qualche dirigente politico proveniente dalle colonie europee, che – come il sindaco di Petit Bourg, nelle Guadalupe francesi – era a Porto Alegre per perorare la «anacronistica» causa dell’indipendenza nazionale.
«Contro la globalizzazione» definì ripetutamente il Forum Walden Bello. «Contro il neoliberismo e la guerra» fu la parola d’ordine di Vittorio Agnoletto. Sarà stato per la fisiologica assenza di portavoce della «rete della moltitudine», ma queste posizioni parvero effettivamente le più rappresentative. Hardt le considera non sufficientemente radicali, non anti-capitalistiche, portatrici – forse inconsapevoli – di vetuste ideologie nazionali. Ha ragione? Discuterne è sicuramente opportuno. La chiarezza nel mondo delle idee non è mai troppa, tanto più che, se non si è in possesso di idee chiare, è difficile agire in modo efficace. Certo è che la provocazione di Hardt ne fa venire in mente un’altra, intorno alla quale l’estate scorsa si sviluppò un vivace dibattito in Italia. «Che cosa vuole il popolo di Seattle?» chiese sul manifesto Luigi Cavallaro, prendendo spunto dal Discorso marxiano sul libero scambio. Parve, a taluni, temerario. Oggi Michael Hardt torna a domandarselo in una forma ancor più radicale. «Chi è il popolo di Seattle?», sembra chiedere. Forse temendo che, in tanto dibattere di neo-liberismo, il «movimento dei movimenti» possa scoprirsi persuaso che gli Stati contino ancora qualcosa e che, insieme ad essi, continui a esistere persino l’imperialismo.