«Droghe, dopo il Tar il governo faccia chiarezza»

E’ reato la detenzione di più di 40 spinelli o – più correttamente – di un grammo di principio attivo di cannabis? Paradossalmente secondo la sentenza del Tar non è reato. Perché, così scrivono i giudici amministrativi, «i limiti quantitativi massimi di sostanze stupefacenti che possono essere detenuti per un uso esclusivamente personale, costituiscono (solo) uno degli elementi di valutazione del giudice penale per accertare unitamente alle modalità di presentazione e ad altre circostanze dell’azione, se quel quantitativo di sostanza sia presumibilmente detenuto ai fini di spaccio».
Qui comincia la contraddizione in cui cade il tribunale amministrativo del Lazio quando, nel seguito della sentenza, il giudice prende invece come unico riferimento, e quindi come esclusivo punto dirimente, quello della soglia cercando così di salvare a tutti i costi dal vizio di incostituzionalità questo punto della legge 49/2006, la Fini-Giovanardi. Insomma: se ci sono più criteri di riferimento nel valutare se si tratta di reato o meno, la questione del decreto Turco è irrilevante. Se poi l’elemento dirimente per il giudice deve essere proprio quello della quantità, ancora una volta le tabelle del decreto sono irrilevanti. Ma questa volta perché il vizio è nella legge stessa che non prevede esplicitamente quali sono i criteri a cui il ministro della Salute (delegato) si deve attenere per formulare le tabelle. La legge è cioè carente proprio di quegli elementi atti a vincolare la «discrezionalità tecnica» di cui parla il Tar che occorrono per configurare la norma penale secondo il principio di legalità dell’articolo 25 della Costituzione. Il quale stabilisce che «nessuno può essere punito se non in forza di una legge». E il Tar implicitamente lo ammette, senza giungere però a una conclusione coerente. Infatti nella sentenza si dice che «la formulazione dell’attuale normativa reca addirittura un criterio di riferimento in meno rispetto al vecchio testo di legge (la Craxi-Iervolino-Vassalli, ndr)».
Eppure in precedenza la Corte costituzionale, nel 1990 e nel ’91, aveva stabilito che viene rispettato il principio di legalità mediante rinvio a decreti ministeriali solo «quando sia la legge ad indicarne presupposti, caratteri, contenuto e limiti, di modo che il precetto penale riceva intera la sua enunciazione con l’imposizione del divieto». Invece la Fini-Giovanardi non si attiene a questa enunciazione della Corte costituzionale. Si potrebbe dire che è una norma penale in bianco, un rinvio all’arbitrio di un altro potere.
L’occasione di questa causa davanti al Tar verosimilmente può trasformarsi però in un boomerang perché mette a nudo tutti gli aspetti di incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi e quindi la necessità di una nuova attività normativa da parte del Parlamento. Implicitamente – e questa è la seconda conseguenza – ci dice che anche il decreto Berlusconi, quello che contiene le vecchie tabelle, sarebbe stato annullato se fosse stata fatta un’analoga causa.
Tutto ciò deve far riflettere il governo sulla necessità di una chiara attività ministeriale di decretazione in modo che si ponga limite al disorientamento sulla conoscenza della legge penale da parte dei cittadini. Occorre che il governo decida velocemente se annullare completamente il decreto o riscriverlo in attesa di cambiare la legge. C’è una domanda infatti da parte dei cittadini consumatori, ma anche delle forze dell’ordine e dei magistrati, disorientati nell’applicazione della legge, di maggiore chiarezza. La legge penale deve essere certa e conosciuta. Altrimenti gli imputati potrebbero – dovrebbero, per diritto – essere assolti.

*Sostituto procuratore generale