Per valutare la recente risoluzione approvata dal Parlamento è indispensabile rifarsi al testo originale del Dpef. La risoluzione, infatti, se da un lato introduce alcuni elementi positivi, nondimeno risente dell’impostazione generale che non poteva essere – e infatti non è stata – modificata.
Il Documento di Programmazione Economica e Finanziaria, infatti, si caratterizza per un’impostazione tecnocratica dalla quale traspare un impianto liberista. L’aspetto più appariscente è costituito dal proposito di conseguire contemporaneamente gli obiettivi di risanamento, crescita ed equità ai quali si connette una manovra che, all’opposto, assumendo come prioritario il risanamento, finisce col pregiudicare il conseguimento degli altri due obiettivi. E, infatti, per riportare il deficit nel 2007 al di sotto del 3% – come imposto dalle autorità monetarie comunitarie – si predispone una manovra estremamente pesante di 35 miliardi di euro (all’incirca simile, per entità, a quella varata agli inizi degli anni Novanta da Amato), imperniata prevalentemente sui tagli alla spesa.
Ne deriva un effetto recessivo a breve. Ed è qui che emerge quell’intima contraddizione con i presupposti dichiarati, in quanto tale manovra finisce col deprimere la ripresa in corso e col compromettere un’azione efficace contro gli squilibri sociali, ricadendo così in quella politica dei due tempi, che si dichiara di voler evitare.
La risoluzione approvata dal Parlamento introduce alcune modifiche. Se, infatti, la manovra prospettata nel Dpef (in conformità alle linee generali prima richiamate) punta, sul fronte delle entrate, a promuovere la lotta all’evasione e all’elusione fiscale e, sul fronte della spesa, ad intervenire su quattro settori socialmente rilevanti (spesa sanitaria, previdenza, pubblico impiego ed enti locali), nella risoluzione s’introduce, dal lato delle entrate, un intervento aggiuntivo sulle rendite finanziarie e, dal lato delle spese, si fissano alcuni vincoli per limitare i danni sociali.
Com’è già stato ricordato sulle pagine di questo giornale, per la spesa sanitaria anziché la riduzione se ne prevede la stabilizzazione (in termini di percentuale sul Pil); per la previdenza si rimanda la definizione dell’intervento sulle pensioni alla verifica sull’incidenza della spesa per l’assistenza; per il pubblico impiego ci si rifà ad un concetto di efficienza che sembra voler evitare interventi draconiani su occupazione e condizioni di lavoro e per gli enti locali si assume il criterio del “saldo di bilancio” al posto di quello del “tetto di spesa”.
Si tratta di modifiche condivisibili, ma che non rimettono in discussione l’impostazione originaria. Infatti, gli obiettivi quantitativi della manovra vengono riconfermati, sia per quanto riguarda la riduzione del debito che per quanto riguarda: l’incremento del saldo primario, il limite massimo del saldo netto, il fabbisogno di cassa e il rapporto debito/Pil. Ne deriva che, anche se l’evoluzione dei conti pubblici potrà consentire qualche riaggiustamento delle stime di bilancio in vista della prossima finanziaria, la manovra resterà comunque molto consistente. Inoltre, i bassi tassi di crescita derivanti da una simile manovra comporteranno comunque un ampliamento delle distanze che ci separano dai paesi più dinamici dell’Unione Europea e la difficoltà a perseguire politiche di riduzione degli squilibri sociali.
Si sarebbe potuto fare diversamente? Certo, ma non sarebbe stato facile. Fin dall’inizio del confronto parlamentare il governo ha sempre difeso tenacemente alcuni obiettivi. In particolare, si è sempre dato per scontato che il rientro sotto il 3% del deficit per il 2007 fosse inderogabile.
Il punto è chiedersi se, a fronte di questi vincoli macroeconomici, un’operazione di qualificazione delle entrate e delle spese – come quella compiuta nella risoluzione approvata – possa modificare il senso della manovra, favorendo la redistribuzione del reddito, salvaguardando lo stato sociale e sostenendo la ripresa economica. Va da sé che ciò è condizionato dalle grandezze economiche che si assumono. Quale sarà la portata di un’eventuale tassazione delle rendite finanziarie? Quale sarà il livello di progressività che si introdurrà nel sistema fiscale e, ancora, fino a che punto gli indirizzi di contenimento della spesa verranno corretti? Ma anche dal punto di vista qualitativo permangono molte perplessità.
Sul fronte della sanità la ipotizzata stabilizzazione degli attuali livelli della spesa non è chiaro se implicherà comunque la più volte annunciata “compartecipazione alla spesa” degli utenti (e cioè il ricorso ai ticket). Così sul pubblico impiego, anche ammettendo che non si operino tagli drastici, non si sa se le voci di un possibile slittamento dei rinnovi contrattuali troveranno conferma. Sulla previdenza il richiamo contenuto nella risoluzione parlamentare allo scorporo dell’assistenza dalla previdenza è contraddetta nei fatti dalla volontà che il governo riconferma – nelle dichiarazioni pubbliche – di voler contenere la spesa, magari attraverso l’incentivazione all’allungamento volontario dell’età pensionabile o ricorrendo ad altri strumenti. Così sugli enti locali l’adozione – come misura di contenimento delle spesa – del saldo di bilancio è in sé positiva ma non è dato sapere quale sarà il livello di tale saldo. In sostanza, alcune affermazioni contenute nella risoluzione possono costituire degli appigli utili per modificare in finanziaria l’impostazione della manovra economica, ma in sé non sono risolutivi.
Nel Dpef, inoltre, non si capisce se la leva dello sviluppo sia costituita dal sostegno al reddito da lavoro o dal sostegno alle imprese. L’imprecisata ripartizione delle risorse derivanti dalla riduzione del cuneo fiscale è in tal senso emblematica. Quello che pare profilarsi è una distribuzione più o meno equa di tali risorse fra lavoro dipendente ed imprese ma che ciò debba produrre esiti virtuosi è tutto da verificare.
Infatti, il sostegno alle imprese si concretizza nell’abbattimento più o meno generalizzato del costo del lavoro e ciò è lecito supporre che rafforzerà le propensioni scarsamente innovative del sistema industriale. Mentre il sostegno al reddito da lavoro – se non venisse integrato da altri e più significativi interventi – potrebbe essere di misura tale da non consentire una significativa redistribuzione del reddito, anche in ragione del fatto che comunque le minori entrate derivanti dalla riduzione del cuneo fiscale renderanno più problematica
Ma qui torniamo alle questioni poste in precedenza. Una manovra di quella consistenza, dettata da esigenze di forte contenimento del debito, seppure integrata da un aumento – rispetto all’impostazione iniziale – delle entrate e da una stabilizzazione (anziché da una riduzione) della spesa, quali risorse può destinare alla redistribuzione del reddito e al sostegno allo sviluppo?
e le molte ombre della risoluzione parlamentare
Gianluigi Pegolo
Per valutare la recente risoluzione approvata dal Parlamento è indispensabile rifarsi al testo originale del Dpef. La risoluzione, infatti, se da un lato introduce alcuni elementi positivi, nondimeno risente dell’impostazione generale che non poteva essere – e infatti non è stata – modificata.
Il Documento di Programmazione Economica e Finanziaria, infatti, si caratterizza per un’impostazione tecnocratica dalla quale traspare un impianto liberista. L’aspetto più appariscente è costituito dal proposito di conseguire contemporaneamente gli obiettivi di risanamento, crescita ed equità ai quali si connette una manovra che, all’opposto, assumendo come prioritario il risanamento, finisce col pregiudicare il conseguimento degli altri due obiettivi. E, infatti, per riportare il deficit nel 2007 al di sotto del 3% – come imposto dalle autorità monetarie comunitarie – si predispone una manovra estremamente pesante di 35 miliardi di euro (all’incirca simile, per entità, a quella varata agli inizi degli anni Novanta da Amato), imperniata prevalentemente sui tagli alla spesa.
Ne deriva un effetto recessivo a breve. Ed è qui che emerge quell’intima contraddizione con i presupposti dichiarati, in quanto tale manovra finisce col deprimere la ripresa in corso e col compromettere un’azione efficace contro gli squilibri sociali, ricadendo così in quella politica dei due tempi, che si dichiara di voler evitare.
La risoluzione approvata dal Parlamento introduce alcune modifiche. Se, infatti, la manovra prospettata nel Dpef (in conformità alle linee generali prima richiamate) punta, sul fronte delle entrate, a promuovere la lotta all’evasione e all’elusione fiscale e, sul fronte della spesa, ad intervenire su quattro settori socialmente rilevanti (spesa sanitaria, previdenza, pubblico impiego ed enti locali), nella risoluzione s’introduce, dal lato delle entrate, un intervento aggiuntivo sulle rendite finanziarie e, dal lato delle spese, si fissano alcuni vincoli per limitare i danni sociali.
Com’è già stato ricordato sulle pagine di questo giornale, per la spesa sanitaria anziché la riduzione se ne prevede la stabilizzazione (in termini di percentuale sul Pil); per la previdenza si rimanda la definizione dell’intervento sulle pensioni alla verifica sull’incidenza della spesa per l’assistenza; per il pubblico impiego ci si rifà ad un concetto di efficienza che sembra voler evitare interventi draconiani su occupazione e condizioni di lavoro e per gli enti locali si assume il criterio del “saldo di bilancio” al posto di quello del “tetto di spesa”.
Si tratta di modifiche condivisibili, ma che non rimettono in discussione l’impostazione originaria. Infatti, gli obiettivi quantitativi della manovra vengono riconfermati, sia per quanto riguarda la riduzione del debito che per quanto riguarda: l’incremento del saldo primario, il limite massimo del saldo netto, il fabbisogno di cassa e il rapporto debito/Pil. Ne deriva che, anche se l’evoluzione dei conti pubblici potrà consentire qualche riaggiustamento delle stime di bilancio in vista della prossima finanziaria, la manovra resterà comunque molto consistente. Inoltre, i bassi tassi di crescita derivanti da una simile manovra comporteranno comunque un ampliamento delle distanze che ci separano dai paesi più dinamici dell’Unione Europea e la difficoltà a perseguire politiche di riduzione degli squilibri sociali.
Si sarebbe potuto fare diversamente? Certo, ma non sarebbe stato facile. Fin dall’inizio del confronto parlamentare il governo ha sempre difeso tenacemente alcuni obiettivi. In particolare, si è sempre dato per scontato che il rientro sotto il 3% del deficit per il 2007 fosse inderogabile.
Il punto è chiedersi se, a fronte di questi vincoli macroeconomici, un’operazione di qualificazione delle entrate e delle spese – come quella compiuta nella risoluzione approvata – possa modificare il senso della manovra, favorendo la redistribuzione del reddito, salvaguardando lo stato sociale e sostenendo la ripresa economica. Va da sé che ciò è condizionato dalle grandezze economiche che si assumono. Quale sarà la portata di un’eventuale tassazione delle rendite finanziarie? Quale sarà il livello di progressività che si introdurrà nel sistema fiscale e, ancora, fino a che punto gli indirizzi di contenimento della spesa verranno corretti? Ma anche dal punto di vista qualitativo permangono molte perplessità.
Sul fronte della sanità la ipotizzata stabilizzazione degli attuali livelli della spesa non è chiaro se implicherà comunque la più volte annunciata “compartecipazione alla spesa” degli utenti (e cioè il ricorso ai ticket). Così sul pubblico impiego, anche ammettendo che non si operino tagli drastici, non si sa se le voci di un possibile slittamento dei rinnovi contrattuali troveranno conferma. Sulla previdenza il richiamo contenuto nella risoluzione parlamentare allo scorporo dell’assistenza dalla previdenza è contraddetta nei fatti dalla volontà che il governo riconferma – nelle dichiarazioni pubbliche – di voler contenere la spesa, magari attraverso l’incentivazione all’allungamento volontario dell’età pensionabile o ricorrendo ad altri strumenti. Così sugli enti locali l’adozione – come misura di contenimento delle spesa – del saldo di bilancio è in sé positiva ma non è dato sapere quale sarà il livello di tale saldo. In sostanza, alcune affermazioni contenute nella risoluzione possono costituire degli appigli utili per modificare in finanziaria l’impostazione della manovra economica, ma in sé non sono risolutivi.
Nel Dpef, inoltre, non si capisce se la leva dello sviluppo sia costituita dal sostegno al reddito da lavoro o dal sostegno alle imprese. L’imprecisata ripartizione delle risorse derivanti dalla riduzione del cuneo fiscale è in tal senso emblematica. Quello che pare profilarsi è una distribuzione più o meno equa di tali risorse fra lavoro dipendente ed imprese ma che ciò debba produrre esiti virtuosi è tutto da verificare.
Infatti, il sostegno alle imprese si concretizza nell’abbattimento più o meno generalizzato del costo del lavoro e ciò è lecito supporre che rafforzerà le propensioni scarsamente innovative del sistema industriale. Mentre il sostegno al reddito da lavoro – se non venisse integrato da altri e più significativi interventi – potrebbe essere di misura tale da non consentire una significativa redistribuzione del reddito, anche in ragione del fatto che comunque le minori entrate derivanti dalla riduzione del cuneo fiscale renderanno più problematica la tenuta della spesa sociale.
Ma qui torniamo alle questioni poste in precedenza. Una manovra di quella consistenza, dettata da esigenze di forte contenimento del debito, seppure integrata da un aumento – rispetto all’impostazione iniziale – delle entrate e da una stabilizzazione (anziché da una riduzione) della spesa, quali risorse può destinare alla redistribuzione del reddito e al sostegno allo sviluppo?