Non sono solo gli Stati Uniti di Bush il teatro di un pericoloso attacco ai diritti di libertà e alle garanzie giuridiche; in proporzioni certo meno allarmanti, il clima di caccia alle streghe è generale, come dimostra la legislazione “antiterrorismo” di molti Paesi europei, compresa l’Italia, dove è ancora vigente il “pacchetto sicurezza” di Pisanu.
In questo quadro appare più facilmente leggibile la vicenda milanese legata agli incidenti di Corso Buenos Aires dell’11 marzo scorso.
Il processo di primo grado, conclusosi con la lettura della sentenza il 19 luglio, ha finalmente partorito l’appendice delle motivazioni. Motivazioni a sostegno di un’ipotesi accusatoria che ha trovato puntuale traduzione nella sentenza di condanna a quattro anni per diciotto dei ventisette imputati con le accuse di concorso morale in devastazione e saccheggio e di resistenza a pubblico ufficiale. Giunti a questo punto, ci preme mettere in luce, astenendoci da qualsiasi indebita ingerenza nel lavoro della magistratura – a cui sola compete l’interpretazione giudiziaria dei fatti -, una serie di elementi a dir poco problematici che è dato evincere dalla semplice lettura delle motivazioni.
A monte dell’analisi di questi elementi, è però necessaria una premessa: quasi trenta persone sono rimaste in carcere oltre quattro mesi in seguito ad un provvedimento di custodia cautelare assolutamente ingiustificato. Non ricorreva – è bene ribadirlo – alcuna delle condizioni che avrebbero motivato, a norma del codice di procedura penale, la restrizione della libertà personale: non sussisteva il pericolo di fuga, né l’ipotesi di reiterazione del reato, né l’ipotesi di inquinamento delle prove.
Ma arriviamo alle osservazioni. La prima: nove persone sono state assolte (chi per insufficienza di prove, chi per insussistenza del reato) dopo oltre cento giorni di carcere. Chi restituirà a questi ragazzi quattro mesi di vita, di studio e di lavoro? Chi avvertirà, se non altro, il dovere di scusarsi con loro e con i loro famigliari, e di abbozzare un seppur tardivo risarcimento morale?
Seconda osservazione: i diciotto condannati, costretti ora agli arresti domiciliari, avrebbero, contrariamente a quanto affermato da ciascuno di loro in sede di difesa, premeditato il reato. Avrebbero architettato a tavolino le barricate contro la polizia e la distruzione di autovetture e di cassonetti dell’immondizia. La prova della premeditazione risiederebbe in una serie di comunicati anonimi apparsi su alcuni siti internet nei quali chiunque può scrivere e pubblicare coperto da pseudonimo. Ma qual è il nesso tra un volantino – peraltro anonimo – che invitava ad una manifestazione di protesta contro una parata neo-nazista (perché di questo stiamo parlando: della oltraggiosa e anti-costituzionale sfilata nel centro di Milano di militanti neo-nazisti della Fiamma Tricolore) e l’imputazione di responsabilità individuale a carico di ciascuno dei manifestanti per il saccheggio e la devastazione?
Il nesso – come ognun vede – è inesistente. A meno che non si scelga di sostenere e di dimostrare, attraverso la sentenza e le motivazioni addotte, una tesi “politica”, semplice quanto perversa: chiunque fosse presente in Corso Buenos Aires l’11 marzo 2006 con l’intenzione di esprimere il proprio dissenso nei confronti della sfilata dell’estrema destra è da ritenersi colpevole in forza di un’intenzione esplicitata precedentemente ai quei giorni in diverse assemblee tenutesi in alcuni centri sociali del nord Italia. La colpa – in tale ipotesi – consisterebbe nel presunto “concorso morale” (e non materiale, giacché era impossibile che le testimonianze raccolte lo dimostrassero) alla degenerazione di quella manifestazione. Ed ecco il terzo elemento che non può essere sottaciuto: il nostro ordinamento riconosce, tra i propri principî fondamentali, quello della personalità della responsabilità penale. La sentenza e le motivazioni eludono precisamente questo cardine, raggiungendo simultaneamente gli imputati (nessuno dei quali è stato individualmente riconosciuto) con accuse pressoché identiche.
La responsabilità personale, proprio in virtù dell’estensione sproporzionata della nozione di concorso morale, si trasforma in una sorta di “responsabilità di presenza”. Si afferma quindi, sotto il profilo della giurisprudenza, un principio giuridico (quello della sussistenza del “concorso morale” nel reato di devastazione) estremamente pericoloso anche per il futuro. Sia detto per inciso ma con la dovuta chiarezza: tutti coloro che intenderanno partecipare ad un corteo non autorizzato da una Questura (la quale potrà invece avere autorizzato – come nel caso di Milano – una manifestazione anti-costituzionale) potrebbero essere accusati e condannati per incidenti intercorsi non addebitabili alle loro singole responsabilità.
Quarto aspetto, a cui si alludeva in relazione al carattere morale e non materiale del concorso: le motivazioni non dimostrano, nei fatti, la condotta devastatrice e saccheggiatrice dei manifestanti e degli imputati. Non esistono chiare ed inconfutabili prove in relazione ai danneggiamenti. Comportamenti ambigui vengono tradotti dalla sentenza in comportamenti di inequivoca complicità e colpevolezza (lo stazionare nei pressi di una barricata diventa, per esempio, “presidio” della stessa).
I genitori dei ragazzi imputati al processo si sono costituiti in Comitato. In una recente lettera agli organi di stampa hanno invocato un principio ed una legittima richiesta. Il principio è quello, sancito dalla Costituzione, che riconosce a ciascuno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero. La richiesta è che la giustizia non devasti e non saccheggi il futuro dei loro figli e la loro stessa vita quotidiana. Non possiamo che associarci con forza alle loro argomentazioni.
Non è in gioco il giudizio su quegli scontri che, da parte nostra, abbiamo sempre criticato, ritenendo irrinunciabile il carattere pacifico e di massa della mobilitazione antifascista e per ciò stesso controproducente e politicamente dannosa l’azione violenta e minoritaria. » in gioco qualcosa di diverso e di ancor più importante di una valutazione di ordine politico: il rispetto delle garanzie fondamentali di libertà riconosciute dall’ordinamento. In tempi di regressione autoritaria e di attacchi generalizzati allo Stato di diritto, non è davvero poca cosa.