Dove crescono i palestinesi «martiri» in Iraq

«Molti giovani sono partiti da qui alla volta dell’Iraq, per difendere l’Islam e un paese musulmano dagli Stati uniti prima che vengano attaccati e occupati altri paesi islamici. Una causa per la quale è giusto dare anche la vita. E almeno una trentina di loro si sono sacrificati». Abu Yaha, circa 35 anni, barba rossiccia un po’ lunga, jeans bermuda al ginocchio e canottiera nera, fisico asciutto da atleta, membro del gruppo «Esbat al Ansar» (Lega dei Combattenti), ci accoglie sorridendo nella sua piccolissima casa ai bordi del campo di Ain el Hilweh, nel quartiere di Taamir, una sorta di «terra di nessuno» tra l’ultimo posto di blocco dell’esercito libanese – una garitta bianca e rossa preceduta da una serie di copertoni sulla linea di mezzeria e sorvegliata da un blindato – e il primo delle forze di sicurezza dell’Olp, un pugno di militari col basco rosso dentro una casettina di mattoni sovrastata dai ritratti di Arafat e di Abu Jihad, ai comandi del leader militare del campo (e non solo di questo) Munir Maqdah. Taamir: un quartiere dove dopo il 2000 si sono installati, prima nelle moschee e poi nelle povere case, i militanti dei gruppi islamisti salafiti jihadisti, a cominciare da Esbat al Ansar, e dove periodicamente scoppiano incidenti con le milizie di al Fatah o con quelle del movimento nasseriano di Sidone. Le misure di sicurezza sono discrete.
Abu Yaha, dopo averci fatto entrare nel suo bilocale, ancora più povero e malmesso delle case che lo circondano, si assenta per alcuni minuti e con lui scompare anche la moglie, velatissima dalla testa ai piedi, che sentiamo in cucina con dei bambini. Un altro simpaticissimo scugnizzo dai capelli riccissimi, avrà quattro anni, gioca invece nel piccolo salotto. Su un divano, malnascosta sotto un giornale, fa mostra di sé una mitraglietta.
Abu Yaha è stato condannato a circa 80 anni per terrorismo ed è ultraricercato dalle autorità libanesi. Vive in questo quartiere ai bordi di Ain el Hilweh, approfittando del fatto che, come tutti i campi palestinesi in Libano, dal 1969 gode di una sua extraterritorialità. All’interno vige una sorta di accordo non scritto tra gli islamisti jihadisti, le milizie dell’Olp, e gli islamisti nazionalisti Hamas: i salafiti possono restare se non creano troppi problemi alle forze di sicurezza del campo e agli abitanti. Del resto non sarebbe facile cacciarli senza provocare un massacro generale. Chi supera certe linee rosse però viene ucciso (come è accaduto a diversi esponenti dei gruppi piu estremi facenti riferimento alla galassia che si ispira ad al Qaeda) o, se arriva ad uccidere dei poliziotti, consegnato alle autorità libanesi.

Accordi non rivelabili
Abu Yaha sembra contento di raccontare la sua missione in Iraq, ma non intende dire nulla invece sul ruolo suo e dei suoi compagni all’interno del Libano. Forse anche su questo ci sono accordi che non si possono violare. «La vita in Iraq – dice dopo aver cercato inultimente di far andare il bambino in cucina – era dura ma siamo stati accolti molto bene nella provincia di Anbar, dove siamo arrivati dopo un lungo viaggio. In Iraq non ci sono foreste o montagne e i combattenti stranieri – comunque una minoranza – non potrebbero sopravvivere se non fossero accolti e nascosti nelle case degli iracheni. Dormivamo dove era possibile, anche all’aperto. Ci spostavamo spesso tra Anbar, Falluja, Ramadi, Tal Afar, fino a Mosul e Baghdad».
Il discorso non può che partire dalla resistenza vista dall’interno e dall’alleanza che si sarebbe stabilita tra settori dell’ex Baath e i nuovi gruppi islamisti. «Non si può fare un discorso generale – continua Omar – perché le carte in Iraq si sono mischiate molto. Non c’è dubbio che a mio parere i migliori combattenti siano i curdi di Ansar al Islam e Ansar al Sunna, poi vi sono molti altri gruppi di varia ispirazione, ma quasi tutti islamici. Per quanto riguarda il Baath, alcuni si sono convertiti e sono bravi combattenti; altri invece, come gli stessi Fratelli Musulmani, sono invece aperti al negoziato e gli americani stanno facendo di tutto per arrivare ad una intesa che gli permetta di diminuire il numero dei soldati».
Eppure, nonostante la sicurezza del nostro interlocutore, non tutto deve essere andato liscio anche tra le fila dei combattenti più radicali e tra questi e la popolazione locale: «Purtroppo gli iracheni sono divisi e se i sunniti hanno ormai cacciato via gli americani dalle loro città o quartieri, non così gli sciiti… E poi la maggioranza sta alla finestra. Non vuole gli americani ma non fa nulla per cacciarli via. Aspetta che se ne vadano da soli».
Il giudizio religioso e politico di Omar contro gli sciiti è senza appello: «Difficile se non impossibile unirsi con loro contro gli Usa – ci dice dopo averci offerto un tè terribile fatto con l’acqua sempre più salata e inquinata disponibile nel campo – così come i protestanti dell’Ulster non si alleeranno mai con i cattolici contro Londra. E’ tempo perso, hanno avuto dei privilegi e non vogliono rinunciarci. Sono quasi tutti poliziotti e conducono una guerra aperta contro i sunniti comunque la pensino». L’esistenza di un dibattito, probabilmente vivace, su altri due punti controversi, gli attentati suicidi e le decapitazioni pubbliche, emerge con chiarezza dalle risposte di Abu Yaha, insolitamente difensive: «Guarda, gli americani sono molto forti – ci dice dopo essersi assentato per altri venti minuti – e spesso l’unico modo per colpirli è quello degli attentati suicidi, dei martiri. Le autobomba inoltre servono anche ad impedire qualsiasi forma di ‘falsa normalizzazione’».
«Come vedi i soldati americani…» gli chiediamo bruscamente: «In gran parte sono dei vigliacchi – risponde duro – nascosti nei loro aerei e nei carri armati. Hanno perso il controllo prima dei loro nervi e poi della situazione. Sono quasi tutti drogati, urlano e sparano a qualunque cosa si muova. Tra loro vi sono anche molti suicidi: una volta dopo un falso allarme bomba ho visto uno di loro spararsi alla testa così, in mezzo alla strada. Inoltre usano il terrore per spezzare ogni forma di jihad: il fosforo bianco a Falluja, i massacri quotidiani, le violenze nelle carceri assai peggiori, specialmente a Mosul, di quelle di Abu Ghraib. I giornalisti sono ormai a Baghdad e solo nella zona verde…».

Giornalisti spie dei crociati
«Anche perché ne hanno rapiti e fatti fuori diversi…», lo interrompiamo, quando il tasso di propaganda si è fatto eccessivo. «Mai quanti gli americani e i loro amici – risponde sorridendo Yaha – e poi in alcuni casi sembra che fossero veramente delle spie dei crociati e degli ebrei. I giornalisti rapiti che non avevano fatto nulla di male sono tornati generalmente a casa».
Dopo una breve interruzione torniamo sul delicato tema delle esecuzioni pubbliche e sul fatto che da tempo non si vedono piu le macabre scene dei video con le decapitazioni degli ostaggi. «Forse hanno visto che sono controproducenti e che danno una cattiva immagine dell’Islam…», suggeriamo, alla ricerca di un qualche dubbio. «No, quello era un messaggio per far capire che facevano sul serio e che i crociati e gli apostati dovevano lasciare il paese – risponde Abu Yaha – ed ha avuto il suo effetto. Quindi non le hanno più fatte. Ormai sono inutili».
Lapidario e sorprendente il giudizio sull’uccisione di Zarqawi. «Il suo martirio non cambia molto, forse anzi potrà avere un risultato positivo dal momento che lo accusavano praticamente di tutto, anche di quel che non aveva fatto. Almeno così la jihad sarà più collettiva».
Prima di andarcene non riusciamo a non chiedere al militante di Esbat al Ansar perché non è rimasto a combattere in Iraq come tanti altri. La risposta sembra quella di un tecnico, di uno specialista, chiamato qua e là a dare i suoi consigli: «Io sono andato per fare un certo lavoro e dopo sei mesi, avendolo finito, sono tornato a casa. La jihad in Iraq può andare avanti e va avanti anche senza di me, senza di noi… da due mesi non mandiamo più nessuno laggiù».
Prima di uscire, dalle parole di Abu Yaha emerge il velo di un dubbio, forse il segno di un cambio di strategia di questi gruppi o comunque un cenno di delusione. «La guerra in Iraq durerà anni e anni, tra alti e bassi, e non possiamo pensare di cacciare gli americani con una spallata finale. Altri paesi islamici sono minacciati dai crociati, anche il nostro, e avranno presto bisogno di noi». «E poi – dice scuotendo la testa – molti in Iraq sembrano decisi a combattere gli americani seguendo altre strategie… A prendere tempo, negoziare, ottenere questo e quello, combattere giusto per tenere aperto il problema in attesa che gli americani si stanchino, tutte cose che non hanno nulla a che vedere con la nostra jihad».