Dopoguerra, le tensioni a sinistra della bianca Bergamo

A partire da oggi sarà nelle librerie un libro, molto utile, di Giuseppe Chiarante. Il titolo è «Tra De Gasperi e Togliatti. Memorie degli anni ’50» (prefazione di Rossana Rossanda e postfazione di Giovanni Galloni, Carocci, pp. 214, euro 18,80). Si tratta di un libro assai intrigante e che obbliga, almeno me, a rivedere valutazioni storiche che mi sembravano indiscutibili. La lezione è che bisogna rivedere continuamente i propri giudizi e non sempre per cambiarli, ma talvolta sì. Per presentare questo libro ai nostri lettori pubblichiamo di seguito uno stralcio della prefazione di Rossana Rossanda, che con la sua «Ragazza del secolo scorso» la memoria l’ha fatta rivivere. Queste di Beppe Chiarante sono le memorie di un ragazzo degli anni ’50. (vp)

Una tesi sottende questo volume di Giuseppe Chiarante: nella trasformazione dell’Italia del dopoguerra da paese arretrato e contadino in moderno e industriale sono stati decisivi non solo e non tanto, come in genere si afferma, la crescita economica e l’inserirsi fra gli Stati di punta dell’Europa occidentale, quanto la specificità della scena politica. Dominata da due grandi partiti, la Democrazia cristiana e il Partito comunista che, pur da sponde opposte di un conflitto sociale molto acuto, non hanno restaurato l’assetto precedente al ventennio, lo hanno interamente ristrutturato.
Né l’una né l’altro erano compromessi con il fascismo, ambedue hanno innervato la Resistenza e l’hanno diretta attraverso organismi comuni (i CLN), ambedue erano persuasi di dover fare una Repubblica avanzata che tagliasse alle radici un fascismo non parentetico. Essi stessi erano mutati: la Dc non era il Partito popolare di don Sturzo, il Pci non era il Pcdi degli anni Venti. Sono stati segnati dall’esilio, dall’antifascismo e dalla guerra e convengono su molte delle urgenze di un paese tramortito. Questo li porta a elaborare assieme una Costituzione alta. Nemmeno la rottura dell’unità antifascista nel 1947 cancella questa memoria fondativa.
In ambedue, secondo Chiarante, resta la coscienza di essere venuti da una stessa temperie. Nella sinistra Dc e nei più giovani si manifesta un’insofferenza per la prudenza del partito sui diritti sociali e per l’essersi schierato subito sul versante atlantico. Quanto al Pci deve riassorbire le spinte della «Resistenza rossa» al Nord e il voto monarchico al Sud. Non sono operazioni che vanno da sé: la Dc deve far fronte a una forte destra che si struttura fuori dei suoi confini nella potente organizzazione di Gedda, con il manifesto appoggio della Chiesa di Pio XII. Il Pci deve conquistare un terreno che, dove la Resistenza non è passata, è brullo o guasto, e ha alle spalle la sconfitta della rivoluzione in Occidente degli anni Venti oppure un «socialismo reale» che non è esportabile. Le tensioni sono più visibili nella Dc, dove le correnti hanno una loro rivista, che nel Pci dove questa libertà di espressione è preclusa. E non mi pare che in esso agisca una gran seduzione dell’avversario – il voto di Togliatti sull’art. 7 è digerito male e soltanto nel 1955 i comunisti intenderanno che dalla coscienza religiosa viene uno specifico portatore del principio di pace, del «no» alla guerra.
Nella Democrazia cristiana invece la tentazione di una maggiore radicalità sociale è forte. Ne sono prove nel primo dopoguerra la breve parabola della sinistra cattolica di Franco Rodano e quella del gruppo torinese di Felice Balbo, Giorgio Ceriani Sebregondi e Sandro Fè d’Ostiani. Ad ambedue la Chiesa impone un aut aut, o dentro o fuori, cui i più si adeguano. Il segno di contraddizione più grande è impresso da Giuseppe Dossetti, anima religiosa e strenuo difensore della separazione fra Stato e Chiesa, il quale piuttosto che piegarsi a una certa idea del partito si ritira e prende gli ordini religiosi, non senza ribadire ai molti che lo hanno ascoltato che è dovere dei cattolici impegnarsi sul terreno civile. Forse nessuno è stato maestro come lui, come lui un riferimento politico e morale, cui non defletterà mai, fino agli anni recenti della difesa della Costituzione e delle posizioni contro la guerra in termini che la Chiesa non osa condannare, quasi che nel consegnarsi ad essa egli anche la sfidasse.
Di questa tensione a sinistra Bergamo, città bianca, è un terreno singolare. Essa conta nella Democrazia cristiana – scrive Chiarante – come una grossa provincia emiliana conta nel Pci. L’impronta cattolica l’ha tenuta lontana dal fascismo anche nella povera provincia. Ne vengono dopo la guerra una Dc particolarmente forte e, al suo interno, un’elaborazione destinata a influire su tutto il partito. Non ad opera della generazione adulta, compattamente moderata: ma, quasi per reazione, dal movimento giovanile, con il gruppo che si forma attorno a Beppe Chiarante, presto dirigente provinciale dei giovani, Lucio Magri, Carlo Leidi, Piero Asperti e molti altri. Hanno una sponda a Roma nel segretario nazionale del movimento, Franco Maria Malfatti, e nella rivista «Per l’Azione».
Chiarante è un testimone privilegiato e in queste pagine ne scrive. Ha riluttato a lungo, essendo persona squisita e poco incline a mettere avanti se stesso. E se lo fa ora, è per essersi trovato proprio là, in quella situazione e in quel momento. Per questo il suo libro è una testimonianza preziosa, su un passaggio e su problemi forse troppo poco studiati.