Dopo la strage di Tel Aviv Olmert ferma la rappresaglia

Dopo una lunga e tesa riunione con i vertici della sicurezza e con tre ministri-chiave (Mofaz della Difesa, Livni degli Esteri ed Ezra della Sicurezza interna), il primo ministro israeliano Ehud Olmert ha deciso di rispondere alla strage di Tel Aviv con quella che potremmo definire una strategia “di contenimento”, cioè con una moderazione che probabilmente ha colto molti di sorpresa.
Pur ritenendo il governo di Hamas “politicamente responsabile” dell’attentato (fra l’altro per non averlo voluto condannare), Olmert ha deciso di evitare attacchi diretti contro i suoi esponenti – e più in generale contro personalità di quel movimento islamico – e di non dichiarare l’Anp una “entità nemica”, definizione che avrebbe coinvolto anche il presidente Abu Mazen e avrebbe potuto innescare una nuova guerra guerreggiata come quella lanciata da Sharon nella primavera del 2002. Olmert ha tenuto conto ovviamente del mutato contesto locale e regionale, a otto mesi dal ritiro unilaterale da Gaza che doveva sancire nelle intenzioni (almeno proclamate) dell’ex premier ormai uscito di scena una “svolta” in direzione di una soluzione di pace ed anche se di fatto ai confini della Striscia è in atto da tempo una sorta di “guerra di attrito”. Da quattro anni in qua molte cose sono cambiate, mentre molte altre sono rimaste drammaticamente le stesse, e Olmert si trova a gestire una eredità che è eufemistico definire difficile. Si sapeva naturalmente che prima o poi i nodi sarebbero venuti al pettine, anche se forse non ci si aspettava che questo sarebbe avvenuto nel momento stesso dell’insediamento del nuovo parlamento israeliano e subito dopo la mossa del presidente iraniano Ahmadinejad che, messo sotto tiro sul nucleare, ha rilanciato elargendo 50 milioni di dollari al governo di Hamas e innescando così fra l’altro una possibile reazione a catena (vedi il pronto annuncio del Qatar di stanziare una cifra analoga).

Questo per sottolineare che l’attentato della Jihad e la possibile reazione israeliana non sono circoscrivibili allo specifico contesto israelo-palestinese e che una eventuale escalation su quello scacchiere avrebbe comunque ripercussioni a livello regionale. Naturalmente sarebbe eccessivo attribuire alla data dell’attentato un calcolo così strategicamente preciso, ma comunque la coincidenza enfatizza tutti i problemi e mette i protagonisti per così dire allo scoperto. Il che vale per Olmert, che non può mettere in causa il progetto di soluzione politica (anche unilaterale) su cui ha fondato la campagna elettorale di Kadima; vale per Hamas, che non può pensare di governare all’infinito barcamenandosi in una ambiguità che Usa ed Europa gli fanno pagare con l’isolamento e con la “punizione” economica (punizione che in realtà colpisce più che Hamas la popolazione palestinese); vale per Abu Mazen, che deve in qualche modo risolvere il problema del dualismo con il governo di Hamas e non può – come a suo tempo Arafat – fermarsi alle condanne tanto severe quanto prive di effetto pratico; ma vale anche per il Quartetto promotore della “road map” (Usa, Russia, Onu ed Europa) che deve porsi il problema se il continuare nella politica di chiusura totale verso un governo che è stato comunque democraticamente eletto non rischi di spingere la crisi verso una situazione di non ritorno.

E’ dunque in questo contesto che Olmert e il suo governo hanno scelto, malgrado le pressioni dei vertici militari, la strada che abbiamo definito del contenimento, senza parlare – almeno nell’immediato – di azioni militari più o meno ampie e fermo restando che queste cose prima si fanno e poi si annunciano e che comunque la Jihad (che vanta di avere settanta kamikaze pronti ad agire) e gli altri gruppi armati diversi da Hamas restano sotto tiro. Tra le misure adottate ieri (e non tutte rese note) ci sono la revoca della residenza a Gerusalemme per i tre deputati di Hamas che vivono nel settore arabo, un rafforzamento dei controlli (già asfissianti) sugli ingressi di palestinesi in Israele e un massiccio irrigidimento dell’intero apparato di sicurezza dislocato sul territorio. Resta da vedere cosa potrà fare sull’opposto versante il presidente dell’Anp Abu Mazen, che ieri si è trovato a dover affrontare un problema inedito: la richiesta di gruppi armati come la Jihad, la Resistenza popolare ma anche cellule delle brigate Al Aqsa (che fanno capo a al Fatah) di “presentare le sue scuse a tutto il popolo palestinese per l’offesa da lui arrecata” condannando duramente l’attentato. Una prova di come le cose siano sul terreno più difficili di quanto può apparire da lontano.