Dopo la Fiat il diluvio

La crisi del più grande gruppo industriale italiano delegittima il capitalismo? Mentre la sinistra discute, la legittimità costituzionale viene violata quasi ogni giorno dal presidente del consiglio e dai suoi ministri, senza scatenare un’adeguata reattività. Che sia un «regime», che sia «autoritario», occorre dunque individuare inedite strategie per delegittimarlo

La crisi della Fiat è stata oggetto qualche giorno fa, sulle pagine de la Repubblica, di un interessante scambio di opinioni tra Michele Salvati e Franco Debenedetti, figure di spicco della intelligenza diessina di orientamento liberal. Il discorso ha chiamato in causa, ovviamente, le responsabilità del management di corso Marconi e quelle dei governi succedutisi negli ultimi anni alla guida del paese. Ma, aprendo la discussione, Salvati ha ritenuto di doversi pronunciare su una questione ben più radicale. Che gli è valsa l’ammonizione del compagno di partito. La crisi della maggiore industria italiana, col carico di licenziamenti che comporterà, solleva, agli occhi di Salvati, niente meno che il problema della legittimità del capitalismo. Beninteso, egli si affretta a chiarire di non credere all’esistenza di alternative migliori. Si dice persuaso dell’efficacia del capitalismo «nel produrre benessere e innovazione» e della sua capacità di evolvere verso assetti sempre più soddisfacenti. Il capitalismo, insomma, gli appare il minore dei mali, un po’ come a Churchill la democrazia. Resta che di un male si tratta, per talune sue conseguenze (prima tra tutte il fatto che le decisioni sbagliate di pochi causano «sofferenze e disagi di migliaia e migliaia di innocenti», di «molti o moltissimi, che a quelle decisioni non partecipano») e per l’«essenza» stessa del sistema capitalistico (la proprietà privata dei mezzi di produzione, sulla quale appunto riposa «la giustificazione del potere decisionale dei pochi»).La conclusione del ragionamento è rilevante. Proprio perché derivanti dall’«essenza del capitalismo», quelle ragioni di illegittimità «sono profonde». Quanto poi al «fatto che migliaia, a volte centinaia di migliaia di persone si trovano disoccupate senza loro colpa», inutile, secondo Salvati, farsi soverchie illusioni: tali effetti perversi «rimarranno sempre». La riflessione avrebbe potuto essere condotta sino alle estreme conseguenze. Ponendo in luce la struttura essenzialmente non democratica dell’impresa capitalistica (il cui sistema di comando si fonda su una caratteristica non generalizzabile qual è la condizione di proprietario), Salvati mette in rilievo un problema cruciale della stessa teoria democratica, cioè il fatto che, nella società capitalistica, la democrazia sia inevitabilmente confinata nella sfera istituzionale, nel «cielo» della mediazione politica. Non è difficile avvertire, al fondo della sua argomentazione, un’eco di quella insolenza del giovane Marx secondo cui «il materialismo della società civile è l’altra faccia dell’idealismo dello Stato». Ma anche senza giungere a tanto, le sue riflessioni suonano provocatorie. Come può uno dei profeti della mutazione ideologica del Pci in senso liberale indulgere a simili sentimentalismi? Si capisce che un signore congenitamente radicato nel fondamentalismo liberista come Franco Debenedetti abbia avvertito l’urgenza di richiamarlo all’ordine.

Sbaglia di grosso il «caro Michele». Dimentica che, essendo la condizione dell’«efficienza del capitalismo» (cosa su cui «Hayek ha scritto pagine definitive»), la proprietà privata è di per sé «la fonte di legittimazione del capitalismo». Dimentica che, semmai, «illegittima è la proprietà pubblica», che sottrae spazio all’iniziativa individuale e la scoraggia. Dimentica che, a dispetto di qualche inconveniente, sono «assolutamente prevalenti» i casi in cui il controllo capitalistico della proprietà procura «maggiore benessere» per i lavoratori. Dimentica che il capitalismo è buono proprio perché il mercato punisce senza pietà quegli errori che Salvati lamenta. Dimentica davvero troppe cose, e in primo luogo che «parlare di legittimità non porta da nessuna parte». Insomma: ci pensasse bene la prossima volta, prima di lasciarsi andare.

Ora, a parte il fatto che il senatore Debenedetti fa davvero torto all’intelligenza del proprio interlocutore e dei lettori (che senso ha puntare tutto sull’equazione legittimità/efficienza senza neppure degnarsi di segnalare che altro era il criterio altrui, e cioè l’idea che una decisione sia legittima solo se la prende chi poi ne pagherà le conseguenze?), è meraviglioso il tasso di fiducia che egli nutre (o dichiara di nutrire) nelle più improbabili favole della mitologia capitalistica. Nessuna incertezza sul funzionamento della concorrenza, nessun dubbio sulla spontanea razionalità dell’homo £conomicus, nessuna cautela – va da sé – sulle immutabili caratteristiche di quella «organizzazione della produzione» dalla quale discenderebbero tutte le conseguenze che Salvati ha il torto di imputare alla «natura della proprietà». Nessuna perplessità nemmeno alla luce di una citazione che egli stesso ospita e che fa strame dei suoi dogmi, affermando che «molto spesso le fortune economiche in Europa» sono «il frutto della politica». Altro che libero mercato e capacità d’intrapresa.

Nulla, insomma, scuote la granitica certezza del profeta di una «sinistra di governo» che, stando a quanto egli assicura, «pensa che il benessere dei lavoratori lo realizzino imprese sane e competitive». Proclami del genere conviene non dimenticarseli quando ci si interroga sulle ragioni della progressiva estinzione della sinistra italiana. Il bello è che mentre Debenedetti agitava il cartellino giallo, sullo stesso giornale Eugenio Scalfari se la prendeva con D’Amato e i suoi collaboratori in Confindustria, «zelanti sacerdoti dell’ultima ideologia». Quale? Quella secondo cui «l’impresa è il pilastro centrale del progresso materiale e morale della società» poiché «solo l’impresa produce la ricchezza». Tirerà le orecchie anche a Scalfari Debenedetti?

Ad ogni modo, la sua ira non cancella l’interesse della riflessione di Salvati. E non solo per la serietà dei problemi che questi pone e del modo con cui si interroga. Ma proprio per la parola chiave del suo ragionamento, che in questo momento dovrebbe più di ogni altra attrarre l’attenzione. Legittimità è un termine che la borghesia dovrebbe sempre venerare, se non altro in memoria della battaglia antiassolutistica che la portò alla conquista dello Stato, e in considerazione del fatto che sulla presunzione della sua legittimità si regge un sistema non fondato sull’uso sistematico della violenza armata. Ma lasciamo andare simili astrazioni e i dispiaceri di qualche senatore. Il motivo per cui la provocazione di Salvati è più che mai tempestiva non concerne i fondamenti del capitalismo né la crisi di casa Agnelli, ma il governo attualmente in carica. Possiamo qui appena accennarvi, ripromettendoci di riprendere il discorso quanto prima.

Non passa giorno senza che il presidente del Consiglio e i suoi ministri violino i principi base della legittimità costituzionale. Si pensi da ultimo alle vicende Rai o al protervo patrocinio delle «forze dell’ordine» inquisite per i fattacci di Napoli e di Genova. Che cosa ne discende? Al più, garbate querelles sulla natura di questo governo, se si tratti o meno di un «regime», se lo si possa qualificare senza offesa come «autoritario». Nemmeno si trattasse del sesso dei serafini. Significa forse che, al di là dei proclami, della legittimità non importa nulla a nessuno? Siamo davvero convinti che anche in questo caso parlarne «non porta da nessuna parte», come sostiene a proposito del capitalismo Franco Debenedetti? Chi non ne è convinto dovrebbe darsi da fare per trovare qualche via d’uscita, mettendo a frutto, se non la fantasia, almeno la logica.

Se questo governo pone problemi di legittimità, allora occorre individuare strategie di delegittimazione. Non necessariamente un Aventino, ma certo gesti forti affinché il paese capisca. Altro che mettere il broncio quando un presidente dà graziosamente dell’imbecille a un consigliere o quando un altro presidente e i suoi accoliti istituzionali approfittano del decennale dell’assassinio di un grande magistrato per gettare sulla sua figura non si sa se più ridicolo o più ignominia.