Dopo la Bolivia ora tocca all’Ecuador

Da più di una settimana due province amazzoniche sono in rivolta contro la compagnie petrolifere transnazionali. Azzerata la produzione. L’intervento di «San Hugo» (Chavez). Il presidente Palacio di fronte alla «intifada india»

Sarà la prossima Bolivia? L’Ecuador, un paese a fortissima componente indigena dove le uniche voci che «tirano» dell’economia sono il petrolio (il 25% del Pil) e l’emigrazione (con relative rimesse in euro e dollari), si trova di fronte a un dilemma vecchio e nuovissimo. Che fare delle proprie risorse energetiche prima che finiscano e dopo che hanno riempito le casse delle grandi compagnie transnazionali?

Per la Bolivia è il gas, per l’Ecuador è il petrolio dell’oriente amazzonico, che ne fa il quinto produttore dell’America latina.

Da una settimana due dei sei dipartimenti del nord-est, Sucumbios e Orellana, sono in rivolta contro le compagnie petrolifere straniere esigendo che parte dei profitti già colossali e ulteriormente gonfiati da prezzi del barile alle stelle, siano impiegati per costruire strade, creare posti di lavoro e mettere mano ai danni ambientali provocati dalle attività estrattive. In sostanza chiedono la revisione dei contratti di concessione, una richiesta considerata pazzesca dalle compagnie straniere che invocano «la certezza del diritto» e hanno già cominciato a trascinare lo Stato ecuadoriano davanti agli organismi d’arbitrato internazionali.

L’occupazione dei campi e pozzi petroliferi ha provocato scontri con feriti e arresti ma, soprattutto, l’azzeramento del pompaggio del petrolio, con danni economici economici per lo Stato ecuadoriano. L’Ecuador produce in tempi normali intorno ai 550 mila barili al giorno, 340 mila delle compagnie straniere e 210 mila della Petrocuador. Dopo la rivolta di Sucumbios e Orellana la campagnia nazionale ha annunciato la sospensione totale delle attività, seguita dalle compagnie straniere che la giustificano con l’impossibilità di portare il greggio estratto agli oleodotti.

Mercoledì scorso il governo del presidente Alfredo Palacio ha spedito l’esercito e imposto lo stato d’emergenza nelle due province amazzoniche, ha nominato un nuovo ministro della difesa (un generale al posto di un altro) che ha annunciato la mano dura. Domenica i tentativi di mediazione hanno sortito un primo risultato e l’Assemblea bi-provinciale che guida lo sciopero, di cui fa parte anche monsignor Gonzalo Lopez, vescovo di Sucumbios, ha decretato «una tregua» e accettato di andare a Quito su un aereo militare per avviare trattative. Dopo di che la produzione della Petroecuador è ripresa a ritmo ridotto, 54 mila barili al giorno.

A quel punto, a dare una mano al malmesso presidente Palacio, è intevenuto «San Hugo» con un altro dei suoi miracoli. Da Cuba dove si trova per annunciare insieme a Fidel l’offensiva dei «camici bianchi» in contrasto con quella dei marines – 100 mila medici da formare a Cuba e sparpagliare per l’America latina -, il presidente venezuelano ha garantito che coprirà lui con il suo petrolio i contratti d’esportazioneche Petroecuador non riuscirà ad onorare per via della rivolta, «e l’Ecuador non dovrà pagare un centesimo» perché quando potrà restituirà il debito in barili di greggio. Un’altra mossa a sorpresa dello scatenato Chavez che ha contribuito a calmare il prezzo del barile e ha lasciato di stucco gli operatori del settore perché Chavez, che ha più volte sostenuto che il prezzo equo del barile è 100 dollari, ha smentito la sua fama di «rialzista».

Il presidente Palacio si trova in una tenaglia da cui sarà difficile uscire. Paesi come l’Ecuador – o la Bolivia per il gas -, gruppi ambientalisti ma sopratutto – molto più che partiti e sindacati in genere sempre meno rappresentativi – organizzazioni indiane vogliono ripensare alla loro strategia di sviluppo. L’Ecuador dal `96 ha cambiato sei presidenti, tre dei quali cacciati da rivolte indiane-popolari. L’ultimo Lucio Gutierrez, sostituito dal suo vice Palacio in aprile. Dopo 25 anni di neo-liberismo (anche) l’Ecuador è un paese distrutto che la dollarizzazione imposta nel 2000 non ha salvato ma buttato ancor più a fondo. Quando il nuovo ministro dell’economia, Rafael Correa, aveva parlato di «debito sociale» e «sovranità monetaria» e aveva definito «immorale e assurdo» destinare «il 40% del bilancio statale al pagamento del debito estero e solo 2 dollari su 100 dei proventi petroliferi alla salute e all’educazione», gli organismi internazionali e il mercato (oltre all’establishment dell’oligarchia interna) avevano storto il naso. Correa, laureato a Lovanio e nell’Illinois, non era un sovversivo (anche se il fatto di parlare quechua suonava sospetto), si è dimesso subito dopo che la Banca mondiale del nuovo presidente Paul Wolfowitz gli ha negato un prestito già deciso di 100 milioni di dollari.

A Quito e altrove c’è chi vuol vedere dietro la rivolta di Sucumbios e Orellana la mano dei seguaci di Gutierrez, latitante in Brasile e ormai fuorigioco, o del Movimiento Popular Democratico, una coalizione che fa capo al Pc marx-leninista. Ma la molla non è questa, semmai è la «intifada india» in atto nei paesi andini.

Un Ecuador operano le compagnie americane Edc, Oxy e Burlington, la francese Perenco, l’italiana Agip (impegnata in un oelodotto Ocp che sta suscitando enromi proteste), la cinese Cncp Amazon, le canadesi Encana, City, Aec, la spagnola Repsol, le brasiliane Petrobras e Petrobelle, le argentine Cgc, Tecpecuador, Petroleos Sudamericanos. I soliti nomi. Per loro anche l’Ecuador è stato un paradiso in terra. Finora. Ora si cominciano a levare sempre più forti le voci che chiedono a Palacio la revisione di tutti i contratti e qualcuna perfino la nazionalizzazione. Come in Bolivia.