Una cosa sono i numeri. Un´altra le voci. E fa un certo effetto guardare negli occhi chi racconta – perché c´è passata – la storia di un´altra Italia. Che umilia e discrimina chi vuole diventare madre; che emargina ed espelle chi ha l´ardire di mettere al mondo un secondo figlio. Nel Paese con una delle legislazioni più avanzate in fatto di maternità e dai congedi parentali democraticamente estesi ormai anche ai padri, nel Paese dove le coppie dichiarano di coltivare il sogno di una famiglia numerosa, vivono le donne con uno dei tassi di fecondità più bassi al mondo. Forse perché, al di là delle leggi e delle belle dichiarazioni d´intenti, ogni ragazza sa che da noi, se vuoi avere un bambino e lavorare contemporaneamente, devi essere disposta a pagare a volte un prezzo altissimo. L´Istat ce lo aveva già detto attraverso le cifre. Ora, un documentario firmato da Silvia Ferreri dà a quei numeri volti, nomi, suoni, colori. E ci lascia increduli. Ci spiazza. Si intitola «Uno virgola due» (dal tasso di fecondità slittato da 1,29 a 1,33 solo recentemente), è stato realizzato con il contributo del Comune di Roma e verrà presentato per la prima volta questa sera nella capitale, al cinema Quattro Fontane, dove sarà presente a coordinare il dibattito Miriam Mafai.
Prima i numeri: in Italia, il tasso di occupazione nella fascia 20-49 anni è pari al 56 per cento per le donne senza figli, al 53,6 per le donne con un figlio, al 47 per quelle con due figli, al 33,7 per chi ne ha tre o più; il 20,1 per cento delle madri occupate al momento della gravidanza, non lavora più dopo il parto: nel 69 per cento dei casi la donna si è licenziata, nel 23,9 il contratto era scaduto e nel 6,9 è stata licenziata. «L´idea non è nata però dalle statistiche, ma dal percepire intorno a me – da parte delle mie amiche e delle donne che incontravo – questo senso di smarrimento e di difficoltà nel conciliare maternità e lavoro» spiega Silvia Ferreri, «Allora ho chiesto a Miriam Mafai di lanciare attraverso “Grazia” un appello alle lettrici: che scrivessero e raccontassero le loro storie. Sono stata sommersa di lettere. La mia sensazione era giusta: c´erano, ci sono mille modi per dire alle donne: o i figli, o il lavoro; per fargliela pagare quando non si tolgono di torno; per creargli sensi di colpa e costringerle a ridimensionare le aspettative professionali una volta diventate madri». Così nasce il documentario. La macchina da presa puntata sulla vita interrotta di chi non aveva più sedia né tavolo al rientro dalla maternità; di chi è stata licenziata con un pretesto; di chi è stata strattonata verso l´uscita. Storie scomode da dire e da ascoltare, clandestine in fondo, di cui ci si vergogna un po´ da una parte e dall´altra. E che pure sono ancora la nostra Storia.